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Dall’Isis a Scola, da Checco Zalone a Di Caprio: il cinema secondo Gianni Canova L’INTERVISTA

L'articolo a firma di Ilaria Di Lascia

“Il cinema ha questo di bello, che assomiglia alla vita ma non ha i tempi morti della vita”. È iniziata così, con una citazione di Alfred Hitchcock e una dichiarazione d’amore per la settima arte, la chiacchierata con Gianni Canova, celebre critico cinematografico, giornalista, scrittore, docente di Storia e critica del cinema e Filmologia all’ Università Iulm di Milano, volto noto di Sky per cui firma e conduce la rubrica Cinemaniaco. Canova è stato ospite a Foggia della serata inaugurale di Cinema Felix, uno spazio, non soltanto fisico, che si propone di offrire alla città un vero e proprio Circolo di Cultura e un contenitore per proiezioni, incontri e dibattiti. Passeggiare con Gianni Canova per le strade di una Foggia deserta in una umida sera di gennaio, è stato davvero un po’ come essere protagonisti di un campo lungo cinematografico. E la nostra insperata chiacchierata fiume non ha affatto avuto tempi morti.
 
Professore, ma quali bisogni sociali e individuali intercetta e soddisfa il cinema oggi?
Quelli che intercettava fin dalle sue origini, cioè è un attrezzo per fantasticare che ha la capacità di offrire allo spettatore la possibilità di intensificare la propria vita emotiva. Andiamo al cinema perché proviamo delle emozioni che non proveremmo nella vita quotidiana, con una intensità, una rapidità, una sintesi, che la vita non ci consente. Ci aiuta a trovare un altrove, ci obbliga a seguire un percorso narrativo che ci porta a fare esperienza di mondi, personaggi, storie e situazioni a cui da soli non arriveremmo. A livello subliminale il cinema è uno straordinario strumento che addestra il nostro sistema percettivo a trovare un equilibrio rispetto alla modernità: se l’uomo del Novecento ha imparato a trovare un equilibrio fra l’antropico e il macchinino, fra il soggettivo e l’oggettivo, fra il naturale e l’artificiale, che sono le grandi sfide che l’uomo novecentesco ha dovuto affrontare nel suo tempo, è stato anche perché c’era un mezzo di comunicazione di massa, il cinema appunto, la fruizione del quale imponeva queste operazioni. Per capire un film, per vedere un film, devo continuamente negoziare un equilibrio fra il mio sguardo antropico-biologico e quello della macchina da presa, che assomiglia al mio ma non è come il mio. Devo negoziare un equilibrio fra l’alternarsi dello sguardo soggettivo e oggettivo, fra frammento e totalità, fra naturale e artificiale.
 
Com’è possibile oggi stupirsi ancora al cinema? In un mondo in cui siamo costantemente bersaglio di immagini, la maggior parte delle quali cariche di violenza. In un vivere quotidiano dove anche le decapitazioni dell’Isis sono visibili e decisamente reali, non ha forse la realtà superato ogni più turpe fantasia?
Io le decapitazioni dell’Isis non riesco a guardarle, non possiamo abituarci. Per quanto le immagini della violenza sono da sempre parte di uno spettacolo sadico che attraversa tutta la storia dell’umanità. Basti pensare a come tutta la storia dell’arte occidentale sia permeata da immagini di violenza, dalle crocifissioni di Cristo, ai martirologi dei santi, ma andando ancora più indietro, la violenza è espressa anche dal mondo classico, un esempio su tutti, il gruppo scultoreo del Laocoonte. La morte ha sempre fatto spettacolo, pensi a come nell’antica Roma venivano esposte le teste decapitate, a tutta la spettacolarizzazione della ghigliottina durante la rivoluzione francese, alle tricoteuses, le donne che assistevano alle decapitazioni intente a sferruzzare la maglia. Le differenze sostanziali sono che le tricoteuses della rivoluzione facevano esperienza di quel mondo, erano lì a ricevere gli schizzi di sangue sulle gonne, mentre noi non facciamo esperienza del sangue e del male che passa sui media. Là passava la storia, noi siamo nella migliore delle ipotesi testimoni di una cronaca. Il paradosso della società contemporanea è che c’è in giro molta più gente vogliosa di vedere immagini di corpi che soffrono, piuttosto di immagini di corpi che godono, c’è un voyeurismo più attratto dal sangue e dall’orrore che non dall’erotismo. E la dimensione dei media accentua tutto questo e ci sono dei continui riverberi anche nella vita quotidiana. Come quando, le sarà capitato, ci troviamo imbottigliati in autostrada durante un incidente, e si forma una coda di curiosi. Ma che cosa vogliamo vedere? Cos’è che ci attira sull’altra corsia? Sono pulsioni primarie degli esseri umani che la società mediatica enfatizza.
 
E il cinema in questa fase che scopo ha?
In questa fase credo che il cinema non abbia il mandato storico di stupire piuttosto quello di produrre senso. Secondo me è il mezzo di comunicazione di massa che meglio può aiutarci a comprendere quello che sta succedendo, a differenza di altri mezzi di comunicazione che non hanno questa capacità critica. Il cinema essendo un mix di racconto ed immagine, di visione e memoria, di comunicazione ed estetica, è, non so ancora per quanto, ma per ora sono convinto che sia, uno strumento indispensabile che maggiormente può aiutarci ad avere coscienza critica di ciò che sta accadendo.
 
Abbiamo detto addio nei giorni scorsi ad uno degli ultimi grandi maestri del cinema italiano, cosa resta dopo Scola e un’intera generazione di cineasti ormai tramontata?
 Si, l’altro giorno in un’intervista a Radio 24 mi hanno chiesto chi sono gli eredi di Scola… ci ho pensato e ho risposto Sorrentino per un film: La Terrazza ha generato la Grande Bellezza, forse Garrone per mezzo film, Virzì, ma Virzì è erede di tutti…e alla fine ho detto, mah la butto lì: e se l’erede di Scola fosse Checco Zalone? Perché se uno va a vedere, anche i primi film di Scola erano un po’ “sgangheratielli” come i primi film di Checco, che si è raffinato nel corso del tempo, con la differenza che Scola graffiava, Checco è ancora un po’ troppo buonista forse.
 
Dunque lei si spiega così gli oltre 60 milioni di euro incassati dal film di Checco Zalone?
Guardi che io sono un grande fan di Checco, eh. Proprio oggi pomeriggio in hotel lavoravo a un librino che uscirà credo a fine febbraio, un elogio a Zalone, che dovrebbe intitolarsi ‘Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco?’
 
Di noi stessi forse?
Questa è una bella risposta, ma è un riso indulgente nei nostri confronti o di condanna e accusa? Quello che posso dire, per rispondere alla domanda, come mi spiego gli incassi di Quo Vado, è che ho visto come lavorano. Sono stato ospite di Luca Medici e Gennaro Nunziante esattamente un anno fa, mi avevano invitato, pensi, a partecipare a un dibattito sul Vangelo di Pasolini a 50 anni dall’uscita del film. Lei se lo aspetterebbe da quei due? E’ stata una delle giornate più belle della mia vita. In quell’occasione sono stato ospite da loro a Bari e ho visto come per ogni battuta ci sia un lavorìo di oltre 4 o 5 giorni. Ogni battuta, ogni gag deve passare al vaglio innanzitutto dei figli di Nunziante, se funziona con i ragazzini, la provano poi con le mogli, le signore che bevono il the nella Bari borghese e se fa ridere anche loro, infine, la portano al mercato e la stessa battuta deve funzionare anche con le nonnine che comprano il pesce sul lungomare. Se non passa uno di questi tre step, la buttano via. Anche se a loro piaceva. Ecco L’artigianato di cui parlava Scola. Oggi un film in Italia viene scritto, sceneggiato e girato in pochi mesi. Nunziante e Medici ci impiegano due anni.
 
Professore, in chiusura non possiamo non parlare di Oscar e parlando della notte degli Oscar ormai non si può non parlare di Di Caprio. E’ un caso mediatico, ce lo chiediamo tutti: gliela daranno quest’anno la statuetta? Per The Revenant, che, a quanto dicono in molti, non sarebbe il film migliore della sua carriera.
Invece lo è. Forse non dal punto di vista accademico e virtuosistico ma Di Caprio in questo film ha dato una prova attoriale e fisica incredibile. Ha recitato a 40 gradi sotto zero, indossando una pelliccia d’orso che pesava 50 chili, ogni giorno si sottoponeva a sedute di trucco di quattro ore dalle 3 del mattino, per riprodurre le ferite e impiegavano con la troupe altre cinque ore di viaggio per raggiungere luoghi impervi, per girare un’ora soltanto, sfruttando la luce naturale dell’alba. L’attore non è solo chi sa declamare Shakespeare con pathos, è anche colui che porta il proprio corpo a compiere esperienze estreme come lui ha fatto in questo film. Se non glielo danno questa volta l’oscar, secondo me l’Academy rischia di perdere davvero di credibilità.
L'autrice: Ilaria Di Lascia

di Redazione 


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