E' tratto dal suo libro "C'era una volta a Foggia" (edizioni Federico II), il nuovo articolo su storia e tradizioni del territorio di Ettore Braglia.
LA PIPA. Pochi foggiani sanno che tra il 1894-95 fu fondata in Foggia la società della pipa. Erano tempi fortunati e tranquilli in cui, data l’assenza di preoccupazioni “atomiche”, la gente andava in cerca di passatempi e diversivi.
IL LUOGO. La sede a Foggia era in una casetta - alle spalle dell'ex Chiesa della Maddalena in via Saverio Altamura - e si accedeva per un vicolo chiuso, che fu poi distrutto dai bombardamenti. L’arredamento era della massima semplicità e si componeva di un largo e rustico tavolo di legno, una ventina di sedie impagliate e un lume a petrolio.
Sulla parete centrale campeggiava il vessillo sociale, consistente in un'asta di legno grezzo, da cui pendeva teso tra due assicelle un largo foglio di carta spessa, sul quale era disegnata una grande pipa con il motto in dialetto “la pipp ciaunisce”.
IL CIRCOLO. I soci erano quasi tutti studenti universitari: Avv. Domenico Fioritto, Dott. Teobaldi Ferreri, Avvocato Giovanni Bucci Fania, Ing. Ernesto Trifiletti, rag. Alberto Ruggieri, Paolo Mandara, Avv. Anton Piero De Angelis, Tommaso Lucatelli, Giovanni Zammarano Foscarini, Cap. Vincenzo Della Rocca, prof. Rodolfo Santollino, prof. Giuseppe Rizzelli, Mimì Russi, Roberto Russo, prof. Umberto Buontempo e altri.
Il presidente era Mimì Russi, il notissimo “viveur”, dalla squisita signorilità, ricercato nei più fini ritrovi mondani. La sede era aperta di sera, dopo la chiusura della tipografia Ferreri-Trifiletti, al Corso Vittorio Emanuele, dove c’era la ditta Ippolito. però se una parte dei soci era impegnata altrove, le riunioni si tenevano dopo mezzanotte.
C’era l’obbligo per i soci di deporre il cappello che, all’epoca era portato da tutti, sostituendolo con un altro di carta a forma triangolare e con una fascia a contorno sul quale c’era il nome di battesimo del socio, preceduto dalla qualifica “Maste”.
IL FUMO. La pipa era quella napoletana, di terracotta rossa, con lunga cannuccia.
L’ambiente ristretto era saturato di fumo diventando irrespirabile, quindi il Presidente ordinava il “cacciarulo” perché per statuto le imposte dovevano essere sempre chiuse; si apriva il balcone, più volte fino a quando il fumo non vuotava completamente la sala.
Nelle serate invernali si organizzavano cenette a base di “scagliuzz e palatelle, turcinill e scaldatelli”.
In speciali ricorrenze si banchettava e le cose si facevano a regola d’arte, con il menu stampato su speciali cartoncini listati in oro sormontati dalla pipa.
Nelle sedute e durante i banchetti era vietato parlare di politica.
IL CORO. La società aveva il suo inno che era cantato in coro dopo l’ordine del presidente e consisteva in un'interminabile tiritera con la declinazione delle cinque vocali, una per una accoppiata a tutte le lettere dell’alfabeto.
B e a= ba, B e e = be = ba be, B e i = bi=ba be bi, B e o = bo = ba be bi bo, Beu = ba be bi bo bu. E così di seguito tutte le consonanti fino alla zeta.
I "DUBBI". La totale chiusura durante il giorno del locale; le misteriose riunioni serali dalle quali alcune a tardissima ora; l’inno cantato in coro, lo strano copricapo, intravisto dalle persiane, avevano suscitato sospetti e il vicinato pensava a riti strani e misteriosi compiuti iin quella casa.
Molti amici dei soci, incuriositi andarono ad assistere a qualche seduta dell'originale società, ma l’osservanza dello statuto non ammetteva alcuna deroga per gli estranei. Alcune eccezioni furono fatte per due professionisti provinciali.
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