La musica balcanica è la colonna sonora permanente del campo nomadi di Arpinova. Esce dai container e si diffonde lungo il villaggio a 12 chilometri da Foggia, protetto dagli ulivi che danno anche il nome al Campo che un tempo ospitava i migranti stagionali. Dopo l’incendio che nel 2005 bruciò il campo allestito in via San Severo, la comunità nomadi – ma sarebbe meglio dire, stanziale, visto che alcuni vivono a Foggia da oltre 25 anni – è stata trasferita dall’allora Amministrazione Comunale guidata da Orazio Ciliberti nella piccola borgata di Arpinova. Dovevano restarci pochi mesi, in attesa di individuare una nuova sistemazione per gli oltre 100 rom macedoni. Stanno lì da quasi otto anni e nel frattempo un altro incendio si è portato via anche il piccolo Geylo, rimasto carbonizzata tra le fiamme che divamparono nel 2008 nella roulotte in cui viveva.
LA ZONA CONTAINER - Oggi al campo nomadi di Arpinova vivono circa 60 famiglie. Quasi 250 persone, di cui almeno 110 sono bambini. I più grandi sono regolarmente iscritti e frequentano le scuole di Foggia. Sono loro il futuro e la speranza, perché per gli ottanta piccoli che siedono tra i banchi di scuola l’istruzione può rappresentare un’occasione di riscatto, di nuova opportunità sociale. Per il resto, il campo è praticamente diviso in due zone: da un lato i 48 container installati dal Comune di Foggia in questi anni per rendere più agevole la vivibilità al campo; da un lato le baracche di legno per coloro che non hanno ancora avuto i prefabbricati. La zona dei container è tenuta con decoro e dignità da coloro che la frequentano: case e strade pulite, container colorati ed addobbati. Manca la moschea per pregare ed un centro di socializzazione, specialmente per i più piccoli. La pavimentazione è molto rovinata e bastano poche gocce di pioggia per renderla impraticabile. L’unica immondizia che si vede è all’inizio del Campo, ma le responsabilità sono dell’Amica che passa poche volte a raccogliere i cumuli di rifiuti. La mattina il campo è popolato soprattutto dalle donne e dai bambini che non ancora l’età per andare a scuola. Gli uomini sono quasi tutti fuori per lavoro. O c’è chi è tornato dopo una giornata passata per le strade cercando di vendere il ferro vecchio. Come Robert Memech, rom macedone da 20 anni a Foggia, che dice: “Meglio raccogliere e vendere del ferro vecchio piuttosto che andare a rubare. Non mi posso lamentare, tutto sommato, perché ogni giorno riesco a guadagnare quello che mi serve per mantenere la mia famiglia”.
LA ZONA BARACCHE DI LEGNO – Dal campo allestito con i container, però, basta spostarsi di pochi passi per entrare in una zona spettrale, da quinto-sesto mondo. Un piccolo villaggio di baracche, di casette di legno costruite con materiale di recupero. Ci abitano per lo più 10 famiglie, ma ci abitano da tanti anni. Sono quelle che non hanno avuto i container o che non li hanno occupate. Sono quelle che vivono in precarie condizioni igieniche-abitative, con il bagno all’aperto ed i topi che entrano ed escono dalle loro baracche. “Se il Comune mi dà l’autorizzazione – dice David Gasi, dal 1991 a Foggia ma cittadino apolide – vorrei tanto fare una casetta in muratura, per evitare che il legno si bruci in caso di incendio”. Ma non è solo il legno a spaventare le famiglie delle baracche. Ci sono i topi, la fogna nera a pochi metri di distanza, l’immondizia, la sporcizia. Tanto che qualche bambino non è andato a scuola perché i genitori si vergognavano del cattivo odore che emanava. Il loro sogno è di ricevere un giorno dal Comune di Foggia dei container per migliorare la loro situazione abitativa. Anche perché i rom macedoni del campo di Arpinova, al momento, si autogestiscono. Da quando è scaduta la convenzione con l’Opera Nomadi che gestiva il campo e svolgeva molte attività di integrazione, il Comune non ha provveduto a rinnovarla, né a fare un altro bando di affidamento.
L’OPERA NOMADI - Per Antonio Vannella, presidente dell’Opera Nomadi, la lontananza del campo dalla città di Foggia rappresenta comunque un problema, una ghettizzazione, un principio di emarginazione. “Lo sforzo dell’associazione era quello di puntare ad un’integrazione socio-economica dei cittadini rom. Prima quando il campo si trovava in città era più facile favorire momenti di incontro e di conoscenza con la cittadinanza. Ma la distanza del campo a 12 km da Foggia ha fatto venire meno gli sforzi fatti negli anni ed abbiamo notato un degrado sociale proprio negli stessi rom, privati della possibilità – conclude Vannella – di poter vivere il territorio e avere opportunità di crescita”.