“In un paese così, solo Sandokan poteva nascere”. Difficile, infatti, che nella provincia “infetta” di Caserta, o in quella infinita di Napoli, possa nascere un Che' Guevera. Oppure un Gandhi. L'attore, sulla scena, non mente. Anzi racconta, spiazza, riflette. Dall'Auditorium Santa Chiara di Foggia – riaperto causa la pioggia battente della serata di ieri – Roberto Solofra ha portato in scena il suo “Il Macero”, libero adattamento del romanzo “Sandokan”, a firma di Nanni Balestrini.
“AVETE VINTO, AVETE VINTO”. Una seconda giornata dell'Anteprima del Foggia Teatro Festival all'insegna del teatro civile, di denuncia, in grado di tenere sull'attenti una platea non particolarmente numerosa che ha voluto sfidare la pioggia e, anche, la cattiva acustica dell'auditorium. L'attore in scena (autore anche della rappresentazione) patisce nei primi minuti l'eco assordante (retorica quanto mai azzeccata) della location poi, complice una tecnica di rilievo, prende le misure e raggiunge il pubblico foggiano. La storia, d'altronde, non lascia molto al caso: si comincia con il racconto dell'arresto del super boss Sandokan, scovato dopo tredici ore di ricerche nella sua villa-bunker. Il camorrista viene fuori con la sua due bimbe in braccio, la barba e i capelli lunghi, proprio come la tigre di Mompracem: “Avete vinto, avete vinto, siete stati bravi” dice agli agenti, per bocca dell'unico protagonista in scena.
SOTTO GLI OCCHI DI CARABINIERI E FINANZIERI. Chi racconta, infatti, sembra un personaggio secondario, ma non lo è. Affatto. È un ragazzo tra tanti che non è diventato né criminale né corrotto, ma che comunque – “come tutti qua nel mio paese” – ha anche lui un morto ammazzato in famiglia: “Mia madre – dice ad un tratto – me la ricordo sempre di nero, sempre a lutto”. Prova a portare al macero la frutta raccolta nel frutteto di casa, perché “paga di più” buttarla che provare a venderla – “sono soldi europei, sono sicuri”. Col trattore ci mette due ore, sotto il sole bollente, dopo essersi alzato alle quattro del mattino – “uscivo prima io che il sole”. Si mette in fila. E aspetta, mentre la frutta imputridisce, ubriaca con il proprio puzzo, a causa delle molte ore trascorse a bordo del proprio trattore – “spesso passano tre, quattro giorni, si dorme in fila”. Quando poi l'indomani qualcosa si muove è solo per pochi: i super trattori dei boss infatti, gli passano accanto, superano la fila e scaricano (al macero, appunto), qualsiasi cosa, pesando la vettura insieme con tutta la roba – legname, pietre, ferro e, forse, anche un poco di frutta (è la truffa ai danni dell'Aima: il rimborso sulle eccedenze agricole). Sotto gli occhi di carabinieri e finanzieri.
LA NORMALITA' NON ESISTE. L'epilogo è rabbioso, nonostante sia facile immaginarlo. L'unica soluzione, “nel mio paese”, è lasciare, scappare, abbandonare. Anche la famiglia, la sorella, il cugino del cognato trovato morto nella propria officina (insieme con il meccanico e con un vecchio agricoltore lì per caso). Il protagonista non è Sandokan, non fa “il tifo” per la camorra, non è un colluso. Ma non è nemmeno Gandhi o il Che'. È un uomo normale, come tanti: ma in alcune parti d'Italia, la normalità non esiste. O, meglio, sono gli altri a decidere come deve essere.
“In un paese così, solo Sandokan poteva nascere”. Difficile, infatti, che nella provincia “infetta” di Caserta, o in quella infinita di Napoli, possa nascere un Che' Guevera. Oppure un Gandhi. L'attore, sulla scena, non mente. Anzi racconta, spiazza, riflette. Dall'Auditorium Santa Chiara di Foggia – riaperto causa la pioggia battente della serata di ieri –
Roberto Solofria ha portato in scena il suo “Il Macero”, libero adattamento del romanzo “Sandokan”, a firma di Nanni Balestrini.
“AVETE VINTO, AVETE VINTO”. Una seconda giornata dell'Anteprima del Foggia Teatro Festival all'insegna del teatro civile, di denuncia, in grado di tenere sull'attenti una platea non particolarmente numerosa che ha voluto sfidare la pioggia e, anche, la cattiva acustica dell'auditorium. L'attore in scena (autore anche della rappresentazione) patisce nei primi minuti l'eco assordante (retorica quanto mai azzeccata) della location poi, complice una tecnica di rilievo, prende le misure e raggiunge il pubblico foggiano. La storia, d'altronde, non lascia molto al caso: si comincia con il racconto dell'arresto del super boss Sandokan, scovato dopo tredici ore di ricerche nella sua villa-bunker. Il camorrista viene fuori con la sua due bimbe in braccio, la barba e i capelli lunghi, proprio come la tigre di Mompracem: “Avete vinto, avete vinto, siete stati bravi” dice agli agenti, per bocca dell'unico protagonista in scena.
SOTTO GLI OCCHI DI CARABINIERI E FINANZIERI. Chi racconta, infatti, sembra un personaggio secondario, ma non lo è. Affatto. È un ragazzo tra tanti che non è diventato né criminale né corrotto, ma che comunque – “come tutti qua nel mio paese” – ha anche lui un morto ammazzato in famiglia: “Mia madre – dice ad un tratto – me la ricordo sempre di nero, sempre a lutto”. Prova a portare al macero la frutta raccolta nel frutteto di casa, perché “paga di più” buttarla che provare a venderla – “sono soldi europei, sono sicuri”. Col trattore ci mette due ore, sotto il sole bollente, dopo essersi alzato alle quattro del mattino – “uscivo prima io che il sole”. Si mette in fila. E aspetta, mentre la frutta imputridisce, ubriaca con il proprio puzzo, a causa delle molte ore trascorse a bordo del proprio trattore – “spesso passano tre, quattro giorni, si dorme in fila”. Quando poi l'indomani qualcosa si muove è solo per pochi: i super trattori dei boss infatti, gli passano accanto, superano la fila e scaricano (al macero, appunto), qualsiasi cosa, pesando la vettura insieme con tutta la roba – legname, pietre, ferro e, forse, anche un poco di frutta (è la truffa ai danni dell'Aima: il rimborso sulle eccedenze agricole). Sotto gli occhi di carabinieri e finanzieri.
LA NORMALITA' NON ESISTE. L'epilogo è rabbioso, nonostante sia facile immaginarlo. L'unica soluzione, “nel mio paese”, è lasciare, scappare, abbandonare. Anche la famiglia, la sorella, il cugino del cognato trovato morto nella propria officina (insieme con il meccanico e con un vecchio agricoltore lì per caso). Il protagonista non è Sandokan, non fa “il tifo” per la camorra, non è un colluso. Ma non è nemmeno Gandhi o il Che'. È un uomo normale, come tanti: ma in alcune parti d'Italia, la normalità non esiste. O, meglio, sono gli altri a decidere come deve essere.