La birra nel bicchiere giusto: la "pinta"
Dal blog Storie di Pinte di Giuseppe Triggiani
Nell’articolo dello scorso mese ho iniziato a parlarvi della fondamentale importanza del bicchiere giusto nel servizio della birra (LEGGI). Ho analizzato poi tre tipologie di bicchieri abbastanza diffuse descrivendone caratteristiche e peculiarità non solo estetiche ma anche in rapporto alla funzione d’uso, ossia la fruizione di una birra e di un determinato stile. Con questo articolo voglio invece concentrarmi sul bicchiere sicuramente più famoso, che negli ultimi anni ha vissuto un nuovo picco di fama (semmai ne avesse persa nel corso del tempo) con l’esplosione definitiva della craft beer revolution americana. Il bicchiere in questione è la pinta.
TUTTO HA INIZIO IN GRAN BRETAGNA. Partiamo col dire che l’origine di tutto è la Gran Bretagna, terra di grande tradizione brassicola. Da qui sono partite diverse variabili a seconda delle necessità dei paesi di adozione di questo contenitore. È un bicchiere molto versatile, forse il più versatile di tutti. È particolarmente adatto ad ales di stampo inglese (bitter ma anche stout/porter o golden ale e via discorrendo) ma anche per stili molto più in voga nell’ultimo decennio, dalle american lager alle american IPA. Compatta, maneggevole e sufficientemente massiccia, la pinta è l’unico bicchiere immancabile in ogni locale che si rispetti. Come anticipato ne esistono di varie tipologie.
PINTA IMPERIALE. La pinta imperiale, pinta britannica o ancora nonick è la progenitrice di tutte le altre derivazioni. Il termine pint in inglese ha un’ampia accezione, ed è spesso sostanzialmente utilizzato come unità di misura (previsti anche l’eventuale sottomultiplo), gli ormai famosi 568 ml stabiliti nel lontano 1698 dal Parlamento Inglese per la somministrazione nei pub di birra e sidri. La forma di questo bicchiere è molto semplice, un tronco di cono rovesciato leggermente svasato nella parte superiore, dai fianchi lisci e la base massiccia. Al termine del secondo conflitto mondiale la descritta forma si arricchì di una sorta di bombatura nella parte superiore la cui funzione era quella di evitare la rottura del bordo dei bicchieri, da qui il termine no nick (nessun taglio/graffio).
PINTA AMERICANA. Di diretta derivazione dello shaker, l’attrezzo utilizzato dai barman per miscelare i cocktail, in America si diffuse questo modello che partendo dalla pinta inglese, ne ha ridotto la capacità a 473 ml (le cosiddette 16 once americane) e ne ha legato indissolubilmente la sua figura alla craft beer revolution a stelle e strisce. Le intense luppolature di stampo americano vengono esaltate al massimo in questo contenitore che ne aumenta in maniera notevole anche la velocità di fruizione del liquido.
PINTA ROMANA. Roma è la capitale italiana della birra artigianale. Dall’Urbe parte tutto, ed è nell’Urbe il consumo maggiore di birra craft. Pur non essendo un modello universalmente conosciuto come i due precedenti, la pinta romana rappresenta un pezzo della seppur giovane storia italica in fatto di birra. In termini estetici non cambia assolutamente nulla, sono le dimensioni e la capacità che anche in questo caso vengono cambiate, passando ai canonici 33 cl.
UN BUON LOCALE. Abbiamo avuto modo di capire quindi, ancor meglio, il ruolo fondamentale che svolge la forma del bicchiere nel servizio della birra. La pinta (e le sue derivazioni) ha nella versatilità e nella maneggevolezza i suoi punti di forza. Vedere quindi serviti stili di stampo britannico o peggio ancora americano in coppe o in improbabili calici da vino, dovrebbe essere una pratica da debellare. L’attenzione a queste cose demarca, a mio avviso, in maniera netta un buon locale da uno improvvisato