Dalla realtà alla fiction e di nuovo alla realtà: Giorgio Ambrosoli non è morto invano

"Punto Fermo" di Daniela Marcone

Corrado Stajano, in un libro inchiesta che scava nella politica sotterranea degli anni in cui si è consumata la strenua battaglia di Ambrosoli, definì quest’ultimo un eroe borghese. Quante volte ho riflettuto su questa definizione, quasi una contraddizione in termini. Quando mio padre fu ucciso nel 1995, si parlò di lui come dell’eroe borghese del Sud. A seguito dell’ultima archiviazione della vicenda processuale sul “caso Marcone”, lessi tutte le carte prodotte dall’inchiesta, faldoni che occupavano mezza stanza. Compresi  appieno il significato della definizione “eroe borghese”. Mentre sfogliavo le carte, prendendo appunti,  tentavo di rivedere il volto di mio padre, chino sulle carte d’ufficio, pensieroso e serio. Non era il volto di un eroe ma quello di un uomo, mio padre, la stessa persona che viveva a casa con noi. Eppure, in estrema solitudine, aveva voluto vederci chiaro in molte faccende, capire fino a che punto arrivavano certi costrutti di professionisti creati ad arte per evadere imposte miliardarie. Tutto ciò comportava fare ricerche e studiare per ore, ben oltre l’orario d’ufficio. Quando gli chiedevo perché si affannasse tanto (domanda di cui oggi mi vergogno profondamente), mi rispondeva invariabilmente che vi era la necessità che tutti pagassero il giusto in materia di tributi, in caso contrario  l’evasione fiscale sarebbe ricaduta sui piccoli contribuenti.  La tutela dei piccoli contribuenti era la sua ossessione. Ed un mondo migliore per noi, i suoi figli, il suo più profondo desiderio.
Nelle scorse sere sono rientrata in tempo per vedere ciò che, secondo la trasposizione televisiva, è accaduto ad Ambrosoli e, pur consapevole del tragico epilogo della storia, ho amato le scene di vita privata della famiglia Ambrosoli. È evidente  che l’amore che scorreva in quella famiglia era ciò che puntellava il coraggio e la consapevolezza dell’importanza del compito che era stato chiamato a svolgere. C’è una scena che ritengo una delle chiavi di riflessione sull’intera vicenda, quella che mostra Ambrosoli  per la prima volta nella sede della Banca Privata Italiana. Sentendo  squillare tutti i telefoni, chiede agli impiegati presenti perché non rispondessero alle chiamate. Qualcuno gli dice che era inutile, si trattava di disperati che chiedevano della sorte dei loro risparmi. A quel punto,  Giorgio Ambrosoli alza il telefono e prende un appuntamento di lì a poche ore  con la persona che era dall’altra parte della cornetta. Poi dice a tutto il personale di rispondere alle chiamate e fissare appuntamenti  con tutti, nessuno escluso. Erano i piccoli risparmiatori che gli stavano a cuore, le famiglie che avevano depositato in banca i risparmi di una vita. Loro dovevano essere tutelati, prima di tutti. 
Dalla morte di Giorgio Ambrosoli ad oggi sono caduti molti “eroi borghesi”, donne ed uomini che hanno speso ogni energia per combattere la corruzione ed il malaffare, uccisi, in fine, perché erano ostacoli insuperabili a meccanismi perversi che alla loro morte dovevano proseguire il corso stabilito. Non dovevano essere lasciati soli ma per molte delle loro storie questa è la caratteristica più dolorosa.
Per molto tempo l’opinione pubblica ha considerato la mafia come l’unica causa o quasi di stragi efferate, senza tener conto che questa faceva affari con altri soggetti i quali non erano affatto vittime ma soci o, addirittura, istigatori. In realtà possiamo tranquillamente dire che è stato un bene per molti che la mafia fosse additata come unico capro espiatorio, colpevole fino in fondo ma non unica causa del male. Il caso Ambrosoli è emblematico su tanti. L’intreccio tra mafia, mondo degli affari e Stato ha decretato non solo l’esecuzione capitale di moltissime persone ma anche la distruzione di un equilibrio economico che avrebbe garantito, oggi, un’altra situazione al nostro Paese. Quanti Sindona hanno guidato enormi operazioni finanziarie che attraverso percorsi sotterranei hanno portato lontano dalla collettività risorse economiche importanti, in barba ad una economia sana ed ai processi democratici. Eppure, i nostri eroi borghesi hanno insegnato poco a chi si alterna al governo della cosa pubblica. È sotto gli occhi di tutti che le grandi riforme necessarie per combattere la corruzione sono perennemente in ritardo con i tempi. Basti pensare che la legge ad iniziativa popolare promossa da “Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, la n. 109 del 1996, prevedeva, nella sua prima stesura, il riutilizzo sociale dei beni confiscati anche ai corrotti, ma questa parte fu stralciata in fase di approvazione. Io credo profondamente nella campagna promossa da Libera e dal gruppo Abele “Riparte il Futuro”, incentrata sulla lotta alla corruzione, che sta promuovendo soluzioni per eliminare cause ed effetti nefasti di molti fenomeni corruttivi, oltre che prevenirli sul nascere.
Qualcuno potrebbe chiedersi se Giorgio Ambrosoli e tanti come lui, siano morti invano. La risposta, ferma, decisa, è no. Senza di loro il velo non si sarebbe mai squarciato ed interi pezzi di verità non sarebbero venuti fuori. Il loro lavoro ha dato risposta a domande importanti, spetta a noi capire il senso profondo di queste risposte e continuare a pretendere di conoscere la verità.L'intera Italia è percorsa da inchieste e processi, a partire da quello sulla trattativa Stato – mafia, che affondando nel passato potrebbero riscrivere la storia che conosciamo. In tutto ciò esiste, però, un punto fermo: i nostri eroi borghesi ci lasciano un'eredità di ideali e valori fondamentali, quelli di cui Ambrosoli parla nella lettera alla moglie, chiedendole di educare i figli seguendo gli stessi. Qualunque cosa succeda. 


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