Gli ultimi sette calzolai foggiani?

"Azioni e Tradizioni" di Pino Donatacci

LA DURATA DELLE SCARPE. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato, rinvangando il mio passato, la durata media di un paio di scarpe, che sopravviveva, sovente, ad almeno due paia di lacci. Questa mia “ossessione” continua a ripetersi ed ogni volta che mi vedo costretto a buttare un paio di scarpe che non dura più di una stagione, puntualmente ed inutilmente, ne conservo i lacci. Invero, quando ero bambino, strappavo dalle scarpe anche la linguetta di pelle che mi serviva a rivestire la mia fionda. Fatta questa riflessione col calzolaio, questi mi faceva notare come, ai materiali nobili che si usavano prima per fare le scarpe, oggi si sono sostituiti materiali più economici e meno resistenti come la plastica e la gomma.
ULTIMI DIECI ANNI? Ma il rimpianto più grande del calzolaio (non chiamatelo ciabattino perché si offende, in quanto il calzolaio costruisce la scarpa mentre il ciabattino si limita ad aggiustarla) è il mancato ricambio generazionale che vedrà, al massimo tra dieci anni, tramontare per sempre questo lavoro.  La cosa che mi sorprende è che questo lavoro potrebbe avere degli sbocchi lavorativi che vanno al di là della scarpa e che possono coinvolgere tutti gli accessori come le borse, i portafogli e le cinture che sul mercato sono ancora richiesti. Se la scarpa, ormai, non può essere più riparata perché la gomma ha preso il posto del cuoio, la borsetteria potrebbe avere ancora bisogno di manutenzione.
SCUOLA O LAVORO. Il calzolaio, però, mi faceva notare che questo lavoro muore perché i ragazzi escono da scuola in età molto avanzata per avere la capacità e la voglia di imparare un lavoro come questo che richiede pazienza e precisione. Inoltre lo Stato non incoraggia ne i giovani ad intraprendere questi lavori, ne i calzolai ad avere dipendenti poiché la pressione fiscale è tale da non consentire alcun guadagno per l’impresa. Se in tutta Italia solo il 10% delle piccole imprese passa in mano ai rampolli di seconda generazione, a Foggia ho la sensazione che la percentuale si assottiglia ancora. Ci troviamo di fronte ad una mutazione sociale che vede soccombere la piccola impresa, dall’artigianato al piccolo commercio, a favore di grandi strutture che sempre più spesso erodono capitali per investirli altrove (vedi le aperture massicce di ipermercati a Foggia ad insegne esterofile). Il decadimento della piccola impresa è attribuito per maggior parte alla scuola che non riesce a coniugare la formazione con il lavoro. A questo si aggiunge l’insoddisfazione dei titolari di piccole aziende che, facendo fronte a scarsi ricavi e a una forte pressione fiscale, fiscono nel  riporre nella scuola tutte le speranze di futuro per i propri figli. Speranze largamente disattese che, sebbene danno un buon livello culturale alla popolazione giovanile, ci danno poche risposte in termini di accesso al mondo del lavoro. Che fare allora con i nostri figli? Fargli imparare un mestiere subito dopo le scuole superiori o farli continuare a studiare e ritrovarseli trentenni con molte specializzazioni in tasca ma niente lavoro sicuro?


 COMMENTI
  •  reload