Ilaria Cucchi: la sua battaglia, la nostra battaglia

"Punto Fermo" di Daniela Marcone

Ritornando ad Ilaria, oggi mi sono un po’ rivista in lei. Certamente le due vicende processuali, quella relativa a mio padre e quella relativa a Stefano, sono estremamente diverse, eppure la richiesta è la medesima. Che sia percorso fino in fondo il percorso di giustizia necessario a raggiungere una verità processuale, una risposta su chi ha ucciso mio padre e suo fratello. Una risposta, comunque, un punto fermo. Perché un punto fermo occorre nella vita di chi ha perso un proprio caro a causa della violenza di altri uomini. La convivenza con una situazione irrisolta di questo tipo è quasi impossibile e porta a sentirsi vittime di un sistema che arreca conseguenze sociali e psicologiche anche a chi è familiare della vittima in senso stretto. Ricordo che quando mi approcciai alle difficoltà degli sviluppi processuali del “caso Marcone”, ci fu una circostanza che mi colpì ferocemente, ossia la necessità di chiedere giustizia. Nella mia ingenuità ritenevo che il cosiddetto “processo giusto” avrebbe garantito anche a me giustizia, che non avevo bisogno di rivolgermi ad un avvocato perché altri avrebbero garantito la verità, in nome dello Stato, in nome del Popolo Italiano. Così non era, passavano i giorni ed io e la mia famiglia subivamo il silenzio assordante di un’assenza che devasta. Così mi rimboccai le maniche e cessò il breve periodo che mi fu concesso per elaborare la perdita di mio padre.
Non scrivo tutto questo per destare commozione ma per aprire una finestra significativa sugli aspetti umani e pericolosamente vittimizzanti della realtà di chi come Ilaria sta conducendo quel tipo di percorso che, ve lo assicuro, ti mangia la vita giorno dopo giorno. Credo che Ilaria non vada lasciata sola per nessun motivo, in quanto ciò che le sta accadendo è un fenomeno sociale che interessa tutti, non solo perché simili evenienze potrebbero entrare nella nostra vita, sebbene con circostanze diverse, meno gravi (si spera) ed invasive, ma anche perché per troppo tempo non abbiamo ragionato su cosa accade a chi ricopre il ruolo difficile della “parte offesa”. Il nostro sistema giudiziario e, per buona parte,  sociale è di tipo reocentrico, ossia pone al centro di tutele e garanzie chi ha commesso il reato e ciò perché storicamente è stato necessario compiere modifiche legislative che andassero il tal senso ed anche perché appariva scontato che la vittima sarebbe stata tutelata dall’azione penale del pubblico ministero, così come nel caso del decesso della stessa, i suoi congiunti, sarebbero stati ugualmente tutelati. Se però le cose non vanno per il giusto verso, tutto questo sistema si inceppa e ti ritrovi a navigare in acque altissime tra udienze e parcelle da pagare. A questo si aggiunge che Ilaria sta tentando di infrangere un muro ideologico, perché suo fratello un reato lo ha commesso e questo permette a tanti di puntare il dito, di non considerarlo vittima. Ne ho lette molte di riflessioni spiacevoli sui social e, sinceramente, mi sono sentita offesa in prima persona, ho avvertito il pugno nello stomaco come se Stefano fosse stato un mio amico. La sua famiglia non chiede che Stefano venga considerato un santo ma che siano accertate le cause della morte in maniera incontrovertibile e che siano assicurati alla giustizia i responsabili. Non a caso ho utilizzato questa espressione: “assicurati alla giustizia”, espressione che pare ormai obsoleta, appartenere ad altri tempi. 
E’ questo ciò che rischiamo seriamente se la morte di Stefano Cucchi diventa un altro dei tanti misteri della nostra storia repubblicana, che i concetti stessi di giustizia e verità diventino obsoleti, rendendo coloro che aspettano le risultanze del percorso giudiziario vittime di un sistema che le condanna ad un’attesa cui è difficile rassegnarsi. Difficile e pericoloso: in assenza di un punto fermo chiunque potrà un giorno proporre circostanze e versioni che confondono ancora di più situazioni complesse. Ognuno ha diritto al proprio passato e non è pensabile condannare qualcuno a cristallizzare il momento così importante della fine della vita di un proprio congiunto ad una situazione fumosa e traboccante di interrogativi, uno più doloroso dell’altro.Altra riflessione che mi sento di condividere è quella relativa alle fotografie di Stefano che abbiamo visto rimbalzare ovunque, condivise sui social. Stefano vivo e Stefano morto. Stefano sorridente e poi orribilmente sfigurato da una morte crudele. Io ho visto le fotografie di mio padre ferito a morte, le ho viste per errore. Non ci ho dormito per mesi. Penso a quanto sia costato a questa famiglia rendere pubbliche quelle terribili immagini necessarie per provare uno stato di cose che altrimenti non sarebbe risultato evidente. Non appaia scontata e gratuita la loro scelta. Ritengo che sia costata moltissimo. Ciò che si vorrebbe dimenticare perché estremamente doloroso, è stato utilizzato come prova e se lo ritroveranno a vita davanti. E tutto ciò lo hanno scelto consapevolmente ma, se vogliamo, obbligati. Una scelta obbligata che rischia di fare di Stefano un martire inconsapevole.
Io sono al fianco dei magistrati che nel loro lavoro quotidiano, difficile, insidioso, ricoprono un ruolo delicato e fondamentale all’esistenza stessa di una democrazia. Sono con le donne e gli uomini delle forze dell’ordine che in tanti casi svolgono il loro lavoro in situazioni di emergenza e difficoltà estrema, senza lamentarsi e correndo rischi elevati.Io sono con Ilaria Cucchi ed aspetto con lei la verità sulla morte di Stefano. La chiedo con lei. Sento che mi riguarda.Ed auspico che chi garantisce la giustizia e chi la aspetta si possano incontrare, a partire da questa terribile storia, proprio sulla strada della verità che garantisce tutti. 


 COMMENTI
  •  reload