E in questo mistico contenitore vivono e deflagrano voci antiche e moderne, morti lontane e vicine, oltre che echi di altri ispiratori e amici del Pravo come Dino Campana, Carmelo Bene, Jules Laforgue e, specialmente, Leopoldo María Panero (del quale Ianus è traduttore, oltre che co-autore dello splendido libro “Senz’arma che dia carne all’imperium”, Sef editrice, 2011) al quale la poetica di Pravo è legata da un filo indissolubile. Una poesia che nasce stanca di sé fin dal suo principio, anzi, meglio dire, fin dal suo pre-sentimento. E che prosegue in un tremolio, verso l’oblio della forma. Uno sfiato del pensiero che si de-genera per ri-generarsi. Il risultato è balbuzie, inciampo, tradimento della lingua che infine cade, precipita nel linguaggio. Allora questo si fa mancanza, raccoglitore di piccoli silenzi, crudele resa del corpo verso un’auspicabile sonorità ultima: quella del vuoto e dell’abbandono. Il cammino poetico di Ianus Pravo pare così come quello di uno storpio che non sa di camminare, ma che cammina ugualmente su di un filo invisibile, in bilico tra la caduta definitiva e la tortuosità del barcollio infinito; o ancora posso dire, di questa poesia, che possiede una deformante pre-visione, come di un cieco che riesce a vedere, per questo suo difetto salvifico, davvero dentro il buio. Infine una poesia preternaturale, che si offre all’origine pur provenendone così direttamente; uno zero contenente il risultato di più mondi, dunque, un cerchio che mai si s-piega, ma che continua nella rotazione, nell’ombrosa ellissi del dettame, auspicandone lo spezzarsi definitivo.
Riporto qualche poesia da uno dei libri di Ianus, “Nostra Signora d’Auschwitz” (Azimut libri, 2007), oltre al prologo che apre il libro del grande poeta spagnolo, già citato poco prima, Leopoldo María Panero, che senz’altro può esporre meglio di me l’affascinante e difficile poesia del poeta d’origine veneta che oggi propongo.
PROLOGO
Persin la morte è a rischio sul nome della patria
IANUS PRAVO
L’essere umano è una creatura miserabile
LEOPOLDO MARÍA PANERO
Come disse Ponzio Pilato a Gesù Cristo, cos’è la verità? E allora, la verità è la morte di ogni idea. La poesia deve essere questa morte dell’idea a cui ogni essere umano è affiliato. Secondo Derrida, la poesia deve correre il rischio di mancare di senso: senza questo rischio non è. La poesia è il rischio della morte della poesia, senza questo rischio è idea, è la propria morte. Come diceva Marx, essere radicale significa portare le cose alla loro propria radice, e la radice dell’uomo è l’uomo stesso. Homo homini deus, diceva Feuerbach.
L’uomo di cui parliamo non è una categoria e non Ianus Pravo: la verità o la morte dell’ idea. Ovvero: Collodi e Pinocchio nella contrada dei morti. È né proletario né borghese, bensì un essere miserabile che la verità non deve difendere. Allora, si parlava, qui in nostra morte, di rivoluzione, la rivoluzione sì è la morte dell’idea, voglio dire dell’ideale reazionario, cioè della fede. Eppure deve trovare un’idealità in quell’etica non fascista di cui parlava l’ebreo Wittgenstein, e l’unica verità a cui ci si può riferire è la verità della psicanalisi che non possiede alcuna idealità reazionaria o rivoluzionaria, ma che ha per oggetto, come diceva Lacan, non il pane ma la brioche di cui parlava la regina di Francia in tempi di fame. Nemmeno è la verità della CIA ma una verità che deve distruggere l’uomo. Una verità estranea al capitalismo, al comunismo e al fascismo. Ma devo dire, ciò nonostante, che ha costituito il mio ideale segreto, perché ho sofferto troppo a causa di un popolo che non esiste e di un proletariato che non esiste, come non esiste la famosa borghesia. E l’unica verità è il suicidio, oppure continuare a parlare: ma, parlando, e lo disse Wittgenstein, facciamo vibrare il margine di silenzio che, contornando l’espressione, ne addita la miseria radicale. Il grido per cui il cervo è giudicato, come dice Ianus Pravo. Ho paura dei camerieri. La paura è il balocco dei morti, e i morti, i balocchi dei bambini. Sempre piovendo, Ianus (the big Ianus Pravo), sempre piove sulle rovine, e come un cane bastonato sotto la grandine. Nei tuoi alessandrini il silenzio della cesura è un volto sbucato dalla pioggia.
Ianus Pravo e Leopoldo María Panero: siamo rispettivamente Collodi e Pinocchio, e io, Pinocchio, sono il tuo assassino, Ianus, Collodi, come la parola è assassina della cosa. Una A, una V e due O: solo questo dentro la mia testa. Avos, avi, in quella che Fulcanelli chiamava la lingua degli uccelli: non c’è più nulla nella mia testa: c’è il troppo della tradizione, del sangue e dello sterco. Mangiamo gazpacho al “Reloj”: una colomba bianca attacca le briciole del pane sul tavolo come sulla pagina, cercando la freccia del pane, la freccia della parola che dà morte alla cosa. Belial, principe delle mosche, che adori la coca cola come il solo vino concesso ai morti, ascolti lo scroscio dell’orina sul muro come lo sparo di Astaroth, come il battito d’orina dell’angelo che sorvola il sepolcro. Yet say this to the Possum: a bang, not a whimper. Lo schianto della lagna d’Auschwitz: bisogna uccidere la pietà, diceva Hitler. Ci dimentichiamo di rendergli grazie, perché i suoi crimini ci possono aiutare, come diceva Erich Fried, a riconoscere in tempo il misfatto incomparabilmente più grave che oggi noi stiamo preparando. Die ungleich grössere Untat. Per me lo specchio è Cristo: la trasparenza, l’allegrezza. Il Cristo d’Auschwitz, l’allegrezza d’Auschwitz. E Auschwitz è Nostra Signora, Notre-Dame-des- Fleurs. Il fiore che balla sullo sterco. Un nome contro la cosa, contro la rosa crudele della contrada. La flors enversa di Raimbaut d’Aurenga. Addio mascherine! Chi ruba il mantello al suo prossimo muore senza camicia. Ianus Pravo e Leopoldo María Panero gironzolano per le strade di Las Palmas: Collodi e Pinocchio nella contrada dei morti. È dura fatica essere morti, come diceva Rilke. Andiamo a comprare le sigarette. Cinque pacchetti di Red. Sono un vecchio che piscia. Ma sono bella quasi come te, Ianus. Assassinati dalla CIA come J. F. Kennedy e come Andreas Baader. E che il due, un numero, sia uno, dice Ianus Pravo, com’io dissi che essere due è tutto.
(Leopoldo María Panero)
(Un ringraziamento speciale a Blanca Fernández, che mi ha aiutato a raccogliere queste parole di L. M. P., tra il Parque de San Telmo, il Café Esdrújulo, e l’Ospedale San Francisco de Paula a Las Palmas di Gran Canaria, il 23 novembre 2006).
*
Che il due, un numero, sia uno, specchio a uno specchio,
la creta secca della luce sul mano a mano
del Cesare che incarna un dio di seme, dal covo
di cenere che sgorga in bocca al rosso di schiava.
Ma il sale che da Sodoma dona il tempo del nudo
riconduce il lino alla morte, al ventre orinato.
Il suo fetore puro è cento o mille uno, è il due
la derisione dallo specchio in carne, che radica
lo specchio, l’altro, il secondo specchio senza origine
il cui varco colma il segno dello stupro più mite.
Il Dio defeca sulla schiava ogni purezza
del non essere, la materia della sua immagine.
Addio, homo conatus, abbandona il cadavere
ai monatti o alla fogna, all’azzurro dell’addio.
*
Se la frusta solleva il bianco del tuo corpo
a quell’urlo perfetto che ogni Dio tace o irride,
sopportando la linea delle labbra sul morso
del più morto degli dei, dell’amante più morto,
del serpente più azzurro il cui dono è la veglia
sul sonno ammaestrato ma segnato da un pundra
come dal bianco stigma di un bianco Cristo vivo
sulla lama splendente che dalla viva croce
dall’artiglio del pane in un bianco sanguinare,
avvicinati e afferra l’immagine, non sei.
*
Non sa il labbro, Auschwitz, il tremore di carne
che fa la notte oscura, oscura? Oscura la notte?
Se il sole della notte chiude il corpo alla forma,
non c’è nulla più chiaro della notte chiamata
col suo nome. Io son notte e chiamo da un volto
[estraneo,
per la notte più chiara che mai i corpi abbiano
dormito e intercambiato come un flusso di quiete,
il volere di cera che trascina le bocche,
che trascina le bocche a un bel tacere, a due teste
che la misericordia ha abbandonato, guardano
il formarsi dall’una all’altra del solus non
sum, il grido per cui il cervo è giudicato.
*
Non confessa che morte donando allo sguardo,
che ride, o non ascolta, la linea che per putrida
freccia previa al dominio gli occhi ha aperto sul ventre
come un sonno vegliato dal più sordido riso
che uno sguardo di morto possa far crepitare
sul bianco della rosa che veda per la fede
coprire d’attenzione il segreto del vedere,
la massa di violenza che lenta sgretolata
piove nei cristalli i cui cani son forme,
la tua origine è dopo di te, è originata
dall’originato, è spazio e tempo in un segno.
*
Io non son io se il volto geme da un volto azzurro
e si rende visibile fuori la quiete e il senso
mentre trema il mistero in ludo di segno e stare.
Aîdes aidés, per Ade invisibile trascina
il passo del ritiro all’io arido e insonne augurio
del volto, come il volo che nel cielo separa
in due gole l’azzurro, nella linea del vuoto
pianta il cuneo dell’occhio e il luogo del tremare.
Perché chi è cieco, aidés, è un dio, un dio occulto
e la sua rosa è assente come ciò che non muore.