La ragazza che voleva raccontare l'inferno
"Album di infanzia" di Rossella Caso
Conoscere, cercare, svelare, raccontare. Così Ilaria ha raccontato al mondo la sua Somalia.La narrazione ha inizio il 12 luglio del 1993. Durante la fuga da un attacco di somali ai giornalisti due sguardi si incrociano e si “agganciano”: quello di Ilaria e quello della piccola somala Jamila. Da questo momento in poi si intrecceranno sempre di più, raccontando, tassello dopo tassello, ciascuno dalla propria prospettiva, quella di bambina e quella di giornalista inviata di guerra, «un pezzo di Mogadiscio, un pezzo di guerra» (p. 67): il massacro dei giornalisti del luglio del 1993, l’aggressione a Laila, una giovane donna somala che rischiò il linciaggio da parte dei suoi concittadini, l’infibulazione, la difficile realtà quotidiana. E molto altro ancora Ilaria avrebbe potuto raccontare se non fosse caduta vittima di quell’agguato.
Che cosa aveva scoperto? Si parla di indagini sui pescherecci della Pesca Oceanica della società Shifco e della loro contiguità con traffici d’armi e rifiuti tossici. Si parla di un colloquio tra Ilaria e il sultano di Bosaso, un colloquio durato due ore, nel quale la giornalista aveva cercato conferme circa quanto già sapeva: la zona di Bosaso era il fulcro di traffici illeciti di varia natura. Delle registrazioni del colloquio arrivarono in Italia, all’indomani della morte, solo diciannove minuti. Alcune videocassette sono state rubate. Perché? Il sultano Abdullahi Bogor, nell’audizione del febbraio 2006 presso la commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ha affermato che tutti sapevano di quei traffici, ma chi ne parlava era destinato, in un modo o nell’altro, a morire. Come Ilaria e Miran, «uccisi con un solo colpo in testa ciascuno per il lavoro che stavano facendo e per le prove che Ilaria aveva cercato e trovato sul traffico e sullo smaltimento illegale di rifiuti tossici (pagato in parte con armi) e che riguardava la Somalia e l’Italia, e non solo», racconta ancora Gritta Grainer.
Molto altro ancora di Ilaria ci racconta, con lo sguardo tipico dell’infanzia, Jamila, personaggio peraltro completamente inventato dalla Alvisi. Jamila è lì, interviene nel testo con i suoi corsivi a raccontarci i piccoli grandi difetti di Ilaria, rendendola agli occhi dei lettori umana, restituendocela in una dimensione molto più vicina a noi, al di là di ogni rischio di “santificazione”: «Non puoi sperare di trovare un marito con quelle camicione larghe e quei pantaloni stropicciati», o ancora «non è bello che una donna vecchia come te non sia sposata». A vent’anni da quel tragico 20 marzo, troppe domande restano ancora senza risposta, per esempio chi ha ordinato l’esecuzione e chi ha coperto esecutori e mandanti. Già questa una valida ragione per provare a raccontare questa storia. E a raccontarla ai ragazzi, come ha fatto Gigliola Alvisi. Non certamente per farne un’eroina, ma per dire loro che un mestiere si può fare per passione e per muovere in loro quel sano spirito di indignazione – per tutto quello che si tace, per quella giustizia che ancora, a vent’anni, non è stata fatta – che solo può renderli cittadini attivi e consapevoli.
Ho incontrato Gigliola Alvisi subito dopo la presentazione del libro alla Ubik di Foggia, il 6 maggio 2014, e lei ha accettato di rispondere ad alcune domande. Domande che vertono non solo sul romanzo, ma anche sull’importanza dello scrivere per ragazzi.
Intervista a Gigliola Alvisi
1. Come è nata l’idea di scrivere un libro su Ilaria Alpi? Perché una scrittrice per ragazzi sceglie di raccontare proprio di questa figura?
L’idea è nata tra amici scrittori come proposta di un nuovo progetto editoriale per ragazzi dedicato appunto alle biografie romanzate. Io d’istinto ho scelto Ilaria Alpi: ma è stato soltanto scrivendo che ne ho capito i motivi. C’era una vicinanza sia anagrafica che di progetto con Ilaria, visto che anch’io da giovane sognavo di fare la giornalista, ho seguito per questo un corso biennale e ho scritto per alcuni giornali locali. Inoltre ho sposato un operatore televisivo, quindi il mondo del giornalismo televisivo mi è familiare. Quello che mi ha affascinato maggiormente nel raccontare Ilaria è stata la sua normalità, una normalità fatta però di rigore, di etica, di professionalità ricercati e confermati ogni giorno. Credo che, come dice anche la protagonista del romanzo, la sua eredità sia “fare bene il proprio lavoro”. Siamo abituati a pensare che il successo personale sia sinonimo di visibilità, Ilaria ci ha dimostrato, invece, che è quel “fare bene il proprio lavoro”: e questo è il filo conduttore, assolutamente rivoluzionario nella sua semplicità, di tutta la sua storia.
2. Gigliola racconta Ilaria. In che modo è entrata nei suoi “panni”, in che modo le ha dato voce?
Ho ascoltato e riascoltato i servizi che ancora sono disponibili in rete: mi hanno molto colpito la sua voce, così neutra e senza accenti, il modo in cui scandiva le parole, l’attenzione nello scrivere i testi, il suo mettersi a fianco delle immagini e non davanti alla telecamera come unico soggetto del servizio. Ho capito che mettermi al suo posto inventando e raccontando i suoi pensieri non le avrebbe reso giustizia. Quindi ho fatto un passo indietro e l’ho raccontata in modo più giornalistico. E’ solo attraverso il personaggio di Jamila, una ragazzina somala inventata ma assolutamente verosimile, che ho avvicinato Ilaria e l’ho descritta anche nelle sue fragilità. Il rischio di scrivere la storia di una giornalista uccisa così barbaramente è quello di farne un “santino” e io volevo evitarlo.
3. Nel suo libro non risparmia un linguaggio “nudo e crudo” nel descrivere, per esempio, il rito dell’infibulazione o la scena della morte di Ilaria e Miran. Quali motivazioni per questa scelta stilistica?
C’è un modo diverso, più morbido, per raccontare ai ragazzi l’infibulazione di una bambina o l’esecuzione di Ilaria e Miran? Io credo che i ragazzi possano capire qualsiasi cosa, se raccontata loro con onestà e rispetto. E dalla verità delle storie che vengono loro proposte può nascere un sano sentimento di indignazione, che penso sia un buon allenamento per questi giovani cittadini. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e quindi dalle fiabe ai romanzi, è segnato dalla consapevolezza che non sempre, purtroppo, c’è un lieto fine.
4. Ilaria Alpi. La ragazza che voleva raccontare l’inferno ha un finale tragico. Si chiude con la morte dei due giornalisti. E nel contempo lascia un filo di speranza. Il messaggio che anche la sua morte ha lasciato alla piccola Jamila, ormai diventata una donna. Perché questa scelta? Cosa ha voluto raccontare ai ragazzi?
La storia in questo romanzo si ferma al momento dell’esecuzione. Ho deciso di non raccontare i vent’anni successivi, caratterizzati da menzogne, depistaggi e offese alle famiglie di Ilaria e Miran perché, davvero, sarebbe stato troppo per i ragazzi! Come si fa a lasciare i ragazzi da soli davanti a un libro che racconta uno Stato che ha abdicato al suo ruolo? Lì sì, bisogna accompagnarli: lo si può fare da scrittori, incontrandoli e raccontando “il dopo”, lo possono fare genitori e insegnanti parlandone e spiegando. I vent’anni successivi danno in qualche modo peso alla storia di Ilaria, ci confermano che se qualcuno si è dato tanto da fare per insabbiare la verità sulla sua indagine giornalistica e sulla sua morte vuol dire che lei aveva scoperto qualcosa di veramente grave. Ma non sono la storia di Ilaria. La sua storia di donna e di giornalista si ferma quella domenica 20 marzo 1994. Il resto c’è nella chiusura del romanzo, affidata alle parole di Jamila che, diventata giornalista a Parigi, dice: “Sono una donna somala, di adozione francese, non infibulata, libera di essere. E lo devo anche a Ilaria”.Ogni tanto i ragazzi mi chiedono: qual è il senso di questa storia? Può una morte lasciare un senso a chi rimane? Rispondo raccontando il senso che io ho trovato: ho avuto l’esempio di impegno civile dei genitori di Ilaria, Luciana e Giorgio Alpi, che come dice Jamila “si sono battuti come leoni coraggiosi per ottenere verità e giustizia e niente, ne’ depistaggi ne’ menzogne, li ha mai fermati”, ci sono due associazioni intitolate ai due giornalisti, che lavorano in ambiti diversi in loro memoria, ci sono ragazzi che a vent’anni di distanza studiano il lavoro di Ilaria nelle loro tesi di laurea, siamo ancora qui (io e lei che mi intervista) a scrivere libri e articoli su questa vicenda, siamo ancora qui come cittadini italiani indignati a chiedere verità. Se si può trovare un senso, forse è questo.
5. Ultima domanda: come interpreta Gigliola Alvisi il mestiere di scrivere per ragazzi?
Con rispetto. Rispetto è davvero la parola che mi guida quando immagino una storia, quando la scrivo, quando poi incontro i ragazzi nelle scuole. Li rispetto come lettori e quindi mi impegno a scrivere storie di qualità. Una volta un piccolo editore mi ha proposto un lavoro per lui e mi ha detto: “Mi raccomando, non perderci troppo tempo con questo libro. Tanto, sono ragazzi…”. Per fortuna rappresenta un’eccezione. Ma è anche vero che spesso si pensa che scrivere per ragazzi sia più facile, perché non hanno ancora gli strumenti per valutare correttamente un libro. In realtà è il contrario: sono meno facili da imbrogliare, perché sono più istintivi nelle scelte e nelle valutazioni. O il libro li “acchiappa” alle prime pagine e li tiene inchiodati fino alla fine, o lo buttano nel cestino e tanti saluti allo scrittore!Quindi rispetto e piacere, perché a me questi ragazzi piacciono davvero tanto: quando li incontro nelle scuole incontro occhi svegli e grandi sorrisi, battute al vetriolo e discorsi sul senso della vita. Capisco il significato di scrivere non tanto quando digito forsennatamente sulla tastiera del mio pc, ma piuttosto quando incontro i ragazzi e loro mi “restituiscono” i miei libri più densi di senso e di motivazioni perché li hanno caricati anche delle loro esperienze e dei loro pensieri.