La storia della signora D. e della ragionevole durata del processo

Storti & Diritti di Claudio de Martino

LA "SOLITA" CAUSA. La storia della signora D. ha inizio sette anni fa nella ridente cittadina di Manfredonia (Comune di fantasia ndr). Un contratto a progetto, come tanti ne hanno fatti le imprese, anche senza criterio, affidandosi a consulenti a volte un po’ improvvidi, per sostituire i tradizionali lavoratori subordinati, che, si sa, costano troppo e rendono poco. La storia della signora D. si infrange un giorno in un banale litigio con il titolare. E di lì ha inizio la vertenza per il riconoscimento del lavoro subordinato. Un salto dall’avvocato, con tanto di marito in perenne stato di agitazione e figlia piccola che piange, la rituale lettera di messa in mora e, in assenza di una risposta dell’azienda, il ricorso e l’inizio della causa. Una storia come altre centomila al Tribunale di Foggia, uno dei più affollati d’Italia.

IL PROCESSO "LUMACA". Prima udienza di comparizione delle parti. La signora D. si presenta diligente in Tribunale, per cercare un accordo con l’aiuto del Giudice, di nuovo col marito e la bambina, già più cresciuta, ma il titolare non viene. “Facesse causa!”, dice all’avvocato di controparte che fa spallucce. E allora un primo rinvio. Poi un secondo perché intanto il Giudice è cambiato. E poi un terzo, un quarto e un quinto per ascoltare mano a mano tutti i testimoni. I Giudici decidono le cause sulla base dell’anzianità del ruolo. Significa che anche se hai ragione, devi comunque aspettare un po’ di anni per ottenere giustizia. In Italia funziona così, ed a noi sembra anche normale.

IL TEMPO STRINGE. “Signora, la chiamo per la conferma del nominativo del testimone da citare per la prossima udienza”. “Si, avvocato. Il nominativo è quello di cui le dissi. Ma oggi sono cambiate un po’ di cose.” “Ha trovato un accordo, per caso?” chiedo col cipiglio di quello che non si fa mica scavalcare dal cliente iperattivo. “No, magari. Sa, dall’ultima udienza ad oggi mi sono ammalata di cancro e non mi resta ormai molto tempo. Mi piacerebbe veder riconosciuti i miei diritti prima che sia troppo tardi… ha capito, vero?”. Ho inteso perfettamente ma non riesco a dire niente di sensato al telefono. Farfuglio qualcosa che ha a che fare con la necessità di rispettare i tempi processuali. Una di quelle cose che sei abituato a raccontare ai clienti molesti che sognano i processi sul modello di Forum, una di quelle che diventa insopportabile da dire alla signora D., che intanto singhiozza al telefono. E allora riesci solo a chiudere con un “mi dispiace tanto signora”, mentre l’articolo 111, sulla ragionevole durata del processo, continua imperterrito a fare bella mostra di sé nella Costituzione, che non solo non è arrivata nelle fabbriche ma neanche nei Tribunali di mezza Italia.


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