Così, partendo da questo spunto, prendono forma “i nomi dei luoghi” attraverso i propri più puri strati invisibili, e la pianura acquista forma, oltre i banchi di nebbia, che riguardano anche il pensiero, e lì, una volta attraversati, crescono i nomi attraversando questa gramigna semplice, questa radice di parole grigioverdi, di sfumature obbligate al contorno di una terra durevole e decisa nel suo spogliarsi di (e da) sé. In questa transizione terrena muta la corrente della Agustoni, si conforma alle proprie ibridazioni, e da queste rinasce per confondersi con gli elementi (rocce dinamitarde, fiumi eclettici, crepacci sublimi…). Ecco che la saggezza dell’aria e del mondo entra nei versi, quasi filtrando lo spavento della carne, quasi delimitandone il rischio di esserci per davvero, stando chiusi a riccio nel vortice della maturazione, pronti a puntare dritti al bivio della crescita.
La scrittura si fa lieve, quasi un velo a protezione delle cose, però allo stesso tempo colpisce la dura precisione delle scansioni, la marmorea parabola che racchiude l’intera opera in una marcescenza d’immagini volte a restaurare, chissà, la fertilità insita nell’essere, quando questo rientra nel suo ciclo mitico, e inizia a mietere la sua genesi consumandosi. E dalla negazione della privazione, dalla messa in onda di custodie ancora capaci di aprirsi, nasce questa poesia fertile e spontanea, gravida e in costante fermento, dove anche l’invettiva o la denuncia conversano con la pace di certi luoghi, come ad arrendersi al tumulto selvatico e rampicante della specie terrestre.
non avremo più niente
i bambini di terezin nel silenzio maiuscolo
di nuvole immobili, dove è già accaduto
e accade per sempre mentre guardi, il giorno
vicino alla luce.
con nomi magri e tempo limpido di prati crescono:
“è stato ancora nascere vedere in fila treni binari
l’heimat è un’aquila bionda e la pura lingua tedesca”.
l’appello è interminabile, sbatte
sul rovescio di finestre, nel ritorno del vento
e i cani corrono contro qualcosa
case e terra senza rumore.
laggiù i vivi hanno spighe, cercano nei volti
qualcuno amato e la pioggia ripete
il fiato si sgola: “non avremo più niente”,
dal mondo trapassano pietre, le mani
sono corteccia, nomi di betulle il bene:
una volta le parole erano la giubba dei reognuno viveva per vivere ognuno
chiedeva perdono molte volte.
io abito in una via di prati
l’azzurro slega bufera
e più forte di verità e passato
è pietra che libera la pietra:
io abito in una via di prati
col sole i muri e rifiuti di fabbriche
ed è giusto e ingiusto oscuro e chiaro
essere superflui negli occhi dell’altro,
nel suo canto-lavoro di pianura
che ci dà imprevista misura di terra
quel sopravvivere ancora assediati.
dove la diga
nel mese dove diga è grembo
e acque salgono i bacinie su barche smisurata mitezza
facciamo al cielo
ho pensatoche sempre la pianta
è rami e spiragli
e mai risana il proprio dolore
ma coincide.
appunti
il passato non è tutto
solo i nomi dei luoghi sono nostri
e nell’aria diurna i nostri nomi collimano
e piantiamo ombrelli intorno alla casa:
sia prescritto ripararsi dai torrenti
dalle acque dolci e salate
e aggiungere un faro tra gli appunti dei naufragi.
condanna
nessuna rovina è uguale al tempo fermo di idoli
al superbo mancare nelle cose
d’ogni testamento
e sventato delirio – bifronte –
ci chiude ogni veduta
più di città e condanna.
Nadia Agustoni (1964) vive e lavora a Bergamo. Collabora a varie riviste e a blog letterari. È redattrice di Lpels “la poesia e lo spirito”. Sue poesie sono pubblicate in riviste e antologie. Si è occupata (saggistica) di Etty Hillesum, Elizabeth Bishop, Kazimiers Brandys, Cristina Annino, Patrizia Cavalli, Alba Donati, Gianna Manzini, Monique Wittig e altri.Pubblicazioni di poesia: per Gazebo Edizioni: Grammatica tempo (1994), Miss Blues e altre poesie (1995), Icara o dell’aria (1998), Poesia di corpi e di parole (2002), Quadernodi San Francisco (2004), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Il libro degli Haiku bianchi (2007); per Le voci della luna: Taccuino nero (2009)