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Caro Don Michele

Libridintorno di Giuseppina Dota

“Insomma il mio posto nella Chiesa è questo cantuccio insignificante di Foggia, dove vivo con gioia e libertà la mia fede. Non adoro il diritto canonico, ma ne comprendo l'utilità come è utile uno scheletro per un bel corpo. Ascolto con rispetto e attenzione i pronunciamenti dell'autorità ecclesiastica, ma non rinuncio al giudizio e all'analisi della mia coscienza. Non posso fare a meno di dissentire, quando mi sembra che essa stia barattando la profezia con un po’ più di potere; quando si chiude in silenzi colpevoli, nei momenti in cui bisognerebbe alzare la voce contro i potenti di turno.”
L’EMMAUS. Queste parole, con cui don Michele De Paolis descrive se stesso, sono il ritratto sincero e senza fronzoli di un uomo misericordioso, di un sacerdote giusto, e di una quercia viva. Un uomo libero e gioioso, rimasto libero fino alla fine, sino alla richiesta, esaudita, di “morire nel modo più umano possibile”, e di morire a Emmaus. Lo ha chiamato così, il luogo dell’incontro e dell’agape, che ha fondato lui, la comunità che si è aperta al mondo in ogni forma di condivisione, dal recupero delle persone affette da dipendenze, all’agricoltura biologica e le energie sostenibili come sistemi di tutela e difesa del Creato, dal commercio equo e solidale alla promozione della finanza etica, dal sostegno alla multiculturalità alla catechesi intensa e intrisa di moderna teologia sperimentata dal gruppo Shalom: non è eccessivo dire che don Michele ha fatto fiorire il deserto, come è accaduto prima di lui ad altri profeti, da quando è arrivato a Foggia nel 1977.
E se ricordiamo che don Michele ci ha lasciati a 93 anni, pochi giorni fa, comprendiamo subito che quando è giunto qui era già un uomo nel pieno della maturità, nell’età anagrafica che per altri significa l’età anziana, parola che mai potrà descriverlo. Don Michele non è mai stato anziano, don Michele ha padroneggiato la saggezza dei vecchi, corredato di capelli canuti e dita nodose e rattrappite, senza mai perdere la giovinezza dello sguardo, della voce, la freschezza di una curiosità inesauribile che è stata il suo canale di comunicazione con i ragazzi, particolarmente cari al suo cuore di salesiano, con i quali a dispetto del divario dell’età ha avuto sempre una intesa formidabile, che si è nutrita di canti, di liturgie festose, di danze e rappresentazioni.
IL LIBRO. La sua vita, dalle origini nobiliari per parte di madre, alla conseguente educazione formale  cui era stato avviato, la sua vocazione, il suo impegno missionario, la sua vita in Sud America, l’obbedienza e più ancora l’acuto spirito di osservazione che ha orientato ogni sua espressione, tutto di sé ha narrato nell’intenso libro-intervista uscito alcuni anni fa, a firma di Enza Paola Cela, Paolo Delli Carri, e Chiara Leone, e quanto scrivevo più sopra riguardo al suo rapporto con i giovani assume contorni tangibili quando rilevo che Chiara Leone ha scritto una parte di questo libro appena diciottenne, e Paolo Delli Carri ha scelto quella dell’educatore come professione. Il libro, per le edizioni La Meridiana, si chiama Caro Don Michele – Domande a un prete scomodo, e “scomodo” non è un aggettivo funzionale solo alla causa letteraria. Un prete che vive spezzando il pane con i tossicodipendenti, distribuisce la Comunione a tutti gli intervenuti alla Messa, insistendo che tutti ma proprio tutti si avvicinino al banchetto, siano essi separati, divorziati, fedeli tiepidi o laici cercatori, un prete che è tra i soci fondatori dell’Agedo (Associazione genitori e amici di omosessuali)  e più e più volte nelle omelie domenicali afferma che due omosessuali che si amano sono una famiglia, perché vivono e sperimentano l’amore, sempre benedetto dal Padre, è un prete senza alcun dubbio scomodo, uno venuto a scompigliare le rassicuranti certezze impartite dalla religione, a cui ha sempre opposto il conforto della certezza dell’amore suscitato dalla Fede. Don Michele ha veramente agito il comandamento nuovo, “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”, e a questa esperienza di umanità ha uniformato la sua opera e le direttive lasciate a chi verrà dopo di lui. Così lo ha salutato anche l’arcivescovo, “la paternità è una forma di autorità che sa di dover morire, quando il figlio ha compiuto il percorso della crescita, mentre il potere perpetua se stesso”, e a tutti è sempre stato chiaro che don Michele è stato un padre, e non un uomo di potere.
UN ROSARIO ARANCIONE. Questa scelta è stata evidente anche nel congedarsi, vestito in abiti civili, al collo un Crocifisso di metallo consunto e quasi ossidato, indosso la sua stola multicolore, un rosario di legno arancione tra le mani, segni della sua vita di missionario, di padre che ha camminato tra i suoi figli, di uomo in mezzo agli uomini; non interlocutore con il divino per interposta persona, ma fratello degli uomini e delle donne di buona volontà in cammino per le vie di un mondo che conta tanti poveri, tanti bisognosi, tanta vita ai margini. Toccante lo stralcio del suo testamento spirituale letto durante i funerali, “uscite di qui e celebrate l’Eucarestia con quelli che incontrate, fuori di qui!”, e “qui” era la chiesa intesa come tempio: così ha fatto lui, sporcarsi a contatto con il mondo che pulsa, non restare a inebriarsi dell’incenso che purifica.

di Redazione 


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