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Foggia Village / Cafoni di ieri e di oggi, Michele De Virgilio racconta in musica una storia vera

I foggiani conoscono l'epica del pomodoro. Questa bacca all'inizio solo ornamentale, importata cinquecento anni fa dal Nuovo Mondo da Cristoforo Colombo, una volta evoluta ha cambiato l'alimentazione degli italiani, facendosi ingrediente versatile e fondamentale di mille piatti, e ha plasmato ricordi che in un solo attimo ci fanno piombare nella nostalgia familiare più tenera, perché non esiste un solo foggiano che non sia stato sfiorato dall'incombenza della preparazione casalinga di salsa e pelati, con annesse, festose riunioni di familiari reclutati per l'occasione.

LA TERRA DELL'ORO ROSSO. Se ci fate caso, nel linguaggio storico dei foggiani non c'è la locuzione "prendere qualcuno a pomodori"; probabilmente perché ne abbiamo troppo rispetto.
Più che comprensibile, quando pensiamo che questo piccolo, amatissimo frutto ha modificato probabilmente per sempre l'assetto produttivo e socio economico di questo territorio.
La sconfinata piana del Tavoliere, asciugata dai venti torridi dell'estate, si presta perfettamente alle coltivazioni intensive, che alla fine degli anni '80 del secolo scorso hanno attirato l'attenzione delle industrie alimentari. Il pomodoro si raccoglie a mano, se si vuole un risultato di qualità, e proprio allora la necessità di braccianti è cresciuta moltissimo rispetto alla disponibilità di maestranze locali.
Il seguito è diventato presto cronaca, e la terra di Peppino Di Vittorio è diventata presto la terra di un nuovo schiavismo, feroce, sfrontato, cosî sicuro di se stesso da non preoccuparsi neppure di agire nell'ombra.

CAFONI, UN RACCONTO IN MUSICA DI UNA STORIA VERA. Questo il contesto che si è imposto di prepotenza nella mia mente fin dalle prime battute della rappresentazione Cafoni, una produzione Avl/Teatro della polvere, da un'idea di Michele De Virgilio, in scena sabato scorso al Teatro Giordano.
Il sipario si apre su una citazione di Ignazio Silone, da Fontamara, che esprime l'inesistente peso sociale riconosciuto alla classe dei braccianti, relegati dopo il nulla ripetuto due volte, che a sua volta segue nella gerarchia "i cani delle guardie del principe". Cafoni, coloro che sono cosî poveri che tengono su i calzoni con lo spago o con la fune, da cui l'appellativo.
Una anziana bracciante, vedova, racconta al pubblico della durezza della sua vita trascorsa, dell'incertezza del pasto quotidiano, che dipendeva dagli umori del "caporale", il quale in piazza sceglieva i lavoratori tra coloro che offrivano le proprie braccia, senza nessun tipo di criterio o tutela misurabile, e della sua solitudine dopo la morte dell'amato Peppino, che va a trovare tutti i giorni al cimitero di un paese del foggiano.
In questa passeggiata si imbatte tutti i giorni in una tomba senza nome, quella di un ragazzo giovanissimo trovato cadavere, con il cranio fracassato, il volto sfigurato. Concetta, cui la vita difficile non ha tolto la capacità di empatia e compassione, sente nascere dentro di sé un dolore profondo per la sorte di questo sventurato ragazzo, e della famiglia che chissà dove lo attende invano, e decide di restituirgli la dignità di una sepoltura: un rito che, da millenni, unisce quelli che se ne sono andati con quelli che sono rimasti, per coltivare la memoria di un legame che desideriamo protrarre il più a lungo possibile. Animata da questi sentimenti, Concetta Di Tonno commissiona la lapide ad eterno ricordo di questo giovane ignoto. Proprio l'apposizione della lapide muove i connazionali della vittima, braccianti polacchi, che si presentano in commissariato per fornirne finalmente le generalità, hanno anche una foto, l'unica in cui i tratti somatici ormai cancellati per sempre dalla brutalità del crimine sono invece ancora un volto, una espressione.
Le diverse scene di vita paesana rappresentate nell'opera, come i dialoghi al bar o il passaparola quotidiano, ci restituiscono la sua storia, quella di un bracciante straniero, ucciso dal caporalato perché non raccontasse della sua schiavitù, reso irriconoscibile investendone il capo con le ruote di un veicolo pesante, morto senza avere giustizia di questo martirio cosî gratuito, crudele.
E con quella, ci vengono narrate altre vicende, come il blitz che ha fatto irruzione in una delle potete baraccopoli allestite nelle nostre campagne, dopo la fuga di due braccianti, anche loro polacchi, anche loro giovanissimi, la loro denuncia alle autorità delle condizioni di segregazione e schiavitù in cui lavoravano, ormai impensabili negli anni Dieci del nuovo millennio, l'affanno dei tutori della legge per abbattere il muro di omertà costruito sulla paura.

GLI ARTISTI. In scena, protagonisti con Michele De Virgilio, Stefano Corsi e Simona Ianigro. I brani musicali, che hanno sottolineato ogni scena e ogni cambio di registro, sulle musiche di Antonio Cicoria, sono stati eseguiti dallo stesso Cicoria alle percussioni e tastiere, da Gianni Mastrangelo al contrabbasso, e da Aurora Corcio, voce e chitarra, strumento che in particolare ha espresso la drammaticità di alcuni tra i momenti più intensi e toccanti dell'opera con un ritmo forte e coinvolgente.

FARE LA SPESA, IL GESTO PIU' POLITICO. Quello che ancora non vi ho detto è che non c'è nulla di inventato, in questo spettacolo.
Gli accadimenti sono tutti reali, storie emblematiche di violenza e malavita che arrivano sempre là dove l'economia ha interessi importanti. Da anni proprio il nostro territorio si fa portavoce di campagne di azione e informazione per suggerirci consumi consapevoli, perché la nostra spesa non sia sporca del sangue fatto buttare da lavoratori che oggi, proprio come i cafoni ieri, hanno il solo torto di essere troppo poveri per cambiare da soli il loro destino. Cerchiamo allora i prodotti con il bollino NoCap, al supermercato, la dignità è un onere in capo anche a chi compra, non solo a chi lavora.
(Giuseppina Dota)

di Redazione 


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