Mario Desiati, la Puglia e le origini nei suoi romanzi L'INTERVISTA
Già vincitore del Premio Strega 2022 con Spatriati (Einaudi), Mario Desiati torna in libreria con “Malbianco”, sempre per Einaudi, e sul palco del festival “Il Libro Possibile”. Lo ha incontrato per noi Cinzia Rizzetti.
LO SCRITTORE. L’autore pugliese di Martina Franca torna a parlare di eredità e radici.
Già nel precedente romanzo, Desiati aveva posto l’accento sui rapporti generazionali, indicato nella famiglia l’origine di tanti traumi e di quanto i “non detti” possano essere letali come, e più, di tanti segreti.
Per le storie dei suoi romanzi attinge spesso alle sue esperienze personali.
La sua scrittura crea atmosfere intense e personaggi credibili e coinvolge il lettore attraverso un linguaggio potente ed evocativo. Una rivelazione non solo per lo stile narrativo ma anche per i personaggi e i luoghi così ben descritti. La Puglia descritta dall’autore è la terra della definizione perfetta di Carmelo Bene “Un religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche”. Una terra di passaggio con tutta la ricchezza delle contaminazioni. Nei dialetti, nell’architettura, nei modi di fare che conserva l’aspetto positivo di quella ricchezza.
IL LIBRO. Il protagonista affronta un viaggio, a ritroso per conoscere le origini dei suoi disturbi e del malessere accompagnato da svenimenti e attacchi di panico. Il suo ritorno in Puglia accompagna il bisogno di scavare a fondo nella sua storia familiare: una storia che appare da subito complessa, verso le origini per un bisogno estremo di conoscenza e verità, alla scoperta di un passato volutamente taciuto. I sintomi fisici come lo stato emotivo lo riconducono a un passato con cui non ha fatto i conti.
Marco Petrovici, con il suo strano cognome, del tutto insolito per la zona del tarantino da cui proviene, comincia la sua ricerca verso l’identità. Lo accompagna la scrittura con il suo valore taumaturgico, consigliata come percorso di cura alla sua fragilità.
Malbianco è un romanzo di silenzi, verità taciute, frutto di un passato doloroso da non poter essere raccontato. I traumi generazionali, vengono tramandati avvelenando e infestando l’albero genealogico.
Il malbianco parassita ricopre gli alberi di una patina biancastra che li conduce alla morte, così i segreti, i “non detti” nelle famiglie, colpiscono tutti i componenti di generazione in generazione.
L'INTERVISTA. È anche questa una storia alla ricerca dell’identità?
È un romanzo che racconta come si gestisce il trauma che ti arriva non dalla tua esperienza personale ma dalla tua famiglia. Si parla di un albero genealogico, quello del protagonista, una saga al contrario. Una semplificazione per ridurre in poche battute il libro. Un uomo che attraverso alcuni sintomi del suo corpo capisce che gli sta parlando, che non conosce la storia della sua famiglia e che per andare avanti è necessario conoscerla.
Ho come l’impressione che nei suoi romanzi le sue radici la seguano, così come quelle dei protagonisti. Uno sradicamento da portare in valigia, è un’interpretazione possibile? Secondo me le radici sono un guaio di tutti. Tutti le abbiamo e a un certo punto della nostra vita abbiamo necessità di tagliarle e trapiantarle. La cosa che cerco di fare negli ultimi libri è di trasformare qualcosa di “non detto” in detto, di esprimere un po’ il rimorso che c’è dentro di noi e nelle nostre radici. C’è un grande scrittore, Bruno Schulz, che diceva che “se noi seppelliamo troppo le radici diventano nere”, meglio tagliarle che farle marcire. C’è uno scrittore - o una scrittrice - che l’ha portata a decidere di voler fare questo mestiere e l’ha ispirata?
Sono un lettore prima che scrittore. La maggior parte del tempo la dedico alla lettura. Faccio questo lavoro perché ho amato tanti scrittori, tanti poeti. Posso dire che un poeta a cui sono molto legato e che è stato importante nella mia adolescenza è Dario Bellezza. Un poeta che amava molto la Puglia dove tornava spesso. Riusciva con la sua poesia a unire l’alto e il basso, uniti da un'oscillazione continua tra temi elevati e esperienze quotidiane, in un linguaggio sublime. Considerato uno dei più importanti poeti del novecento. Ci può lasciare con un pensiero su Maria Marcone e Mariateresa Di Lascia entrambe figlie e autrici di questa terra di Capitanata? Maria Marcone e Mariateresa Di Lascia sono scrittrici che mi hanno accompagnato in questi anni. A un certo punto della mia vita, a quarant’anni per la precisione quando l’ho scoperta, Maria Marcone con “Analisi della mia vita” mi ha letteralmente cambiato l’esistenza. È stato il libro dei mie quarant’anni, molto importante per “Spatriati” e ancor più importante per “Malbianco”.
Mariateresa Di Lascia è una scrittrice che io ho letto ai miei vent’anni e che ho riletto vent’anni dopo. A lei ho dedicato il Premio Strega perché, come sappiamo, lei non poté ritirarlo quando lo vinse perché morì prematuramente. Spero che vengano riscoperte, anche se scrittrici e scrittori come loro sono abbastanza complessi. La complessità oggi spaventa e non solo chi non legge ma comincia a spaventare anche assidui lettori, una complessità difficile da sostenere che però alla fine paga. Una letteratura lungimirante e appagante.
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