Che l'agricoltura sia fondamentale per l'economia italiana, oltre che per il sostentamento della popolazione, lo si capisce anche, soprattutto, in tempi di coronavirus. Laddove tutte (o quasi) le attività chiudono, la produzione agricola e l'indotto ad essa connessa possono, anzi, devono andare avanti.
In questo settore, non è certo una novità, la manodopera straniera rappresenta, già da molti anni, un grande contributo per la produzione italiana. In alcune aree del Paese senza le braccia dei migranti i raccolti non esisterebbero. L’apporto dei lavoratori stranieri in agricoltura è un elemento strutturale che, secondo i dati forniti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, rappresenta quasi il 17% degli occupati totali del settore; da ciò deriva un’incidenza percentuale pari al 10,5% sull’economia nazionale (fonte Istat).
Un contributo importante, destinato a crescere in futuro, con buona pace di nazionalismi, populismi, conservatorismi vari.
E quando l’emergenza virale sarà finalmente passata, il tema del lavoro nei campi, stagionale e non, tornerà, in maniera, forse, ancor più pressante.
IL TREND DEL LAVORO NEI CAMPI. Il trend degli ultimi anni, secondo l'Organizzazione internazionale dei migranti citata in uno studio del portale Agriregionieuropa, ci dice che "molti elementi confermano la presenza di una crescente domanda di lavoro agricolo di tipo 'secondario' a bassa remunerazione, caratterizzata da attività temporanee e mansioni più gravose, che i lavoratori italiani sono sempre meno propensi ad accettare".
E per il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali a poter soddisfare questa domanda è proprio l'offerta rappresentata dagli immigrati, “essendo più ‘appetibili’ per le aziende grazie ad un maggior livello di adattabilità professionale”.
Detto questo, l'appetibilità della manodopera straniera, in Italia, spesso fa rima con sfruttamento e riduzione in schiavitù attraverso il grave fenomeno del caporalato. Secondo il rapporto Demeter 2020, presentato il 6 febbraio a Parigi, nelle campagne del sud-Italia i migranti che lavorano in nero sono l'80 percento del totale. E di questi, molti vivono ben oltre la soglia di deprivazione (come dimostra, solo per fare un esempio, l'ultimo di una drammatica serie di incendi nelle baraccopoli di Borgo Mezzanone,
LEGGI QUI) .
YVAN SAGNET E NO CAP. In questo quadro a tinte fosche opera No Cap, con il suo fondatore Yvan Sagnet, per provare a "far nascere fiori dal letame", per combattere ed annientare una tra le più odiose forme di moderna schiavitù, rilanciando la dignità dei migranti, oltre che quella dell'agricoltura italiana, attraverso la prima filiera etica del settore (per approfondire il progetto nazionale "Iamme - No Cap", nato nelle campagne del Foggiano,
VEDI l'incontro-dibattito con Yvan Sagnet a Parcocittà).
Anche grazie a Sagnet - leader dello storico sciopero di braccianti africani, nel 2011, nelle campagne di Nardò - l'Italia è arrivata alla riforma delle condizioni di lavoro in agricoltura: nel 2016 è stata promulgata la legge che riscrive il reato di caporalato aggravando le pene per i caporali, ed estendendole anche ai titolari di aziende che utilizzano questo vergognoso "servizio". Ma c'è ancora molta strada da fare verso la costruzione della Rete nazionale del lavoro agricolo di qualità, atta a garantire pari diritti ai braccianti stranieri, e prodotti della terra liberi da vessazioni. Ecco perché la battaglia di No Cap continua ai tavoli istituzionali.
L'INTERVISTA. Per capire a che punto siamo, abbiamo intervistato Sagnet, che ci ha raccontato gli sviluppi dell'ultimo incontro, tenutosi a Roma a fine febbraio, presso la sede del Ministero del Lavoro, alla presenza del suo reggente, Nunzia Catalfo, e dei ministri Teresa Bellanova (Agricoltura) e Giuseppe Provenzano (Sud).
Yvan, perché il tavolo istituzionale del 20 febbraio era così atteso da No Cap? Quali i punti all'ordine del giorno?
Si è trattato di un tavolo conclusivo delle proposte avanzate in merito al Piano triennale 2019-2022 contro il capolarato, in cui si prevedono misure che vanno dalla prevenzione alla repressione: dai servizi a tutela delle vittime all'emersione del lavoro nero. Nel nostro intervento abbiamo ribadito la necessità del superamento dei ghetti che continuano a produrre schiavi e morti; un efficiente sistema di trasporto dei braccianti ai campi; l'applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro; un sistema di tracciabilità delle filiere prendendo come buona prassi l'esempio del progetto “Iamme - Liberi di scegliere - NoCap - Rete PerlaTerra”, che in meno di 5 mesi è riuscito a inserire in un circuito lavorativo legale centinaia di braccianti, dimostrando che un'altra agricoltura è possibile.
Quali i prossimi passaggi nell’iter legislativo?
Aspettiamo che i tecnici redigano la bozza con le nostre proposte e che questa venga poi approvata e integrata nel quadro di legge attualmente vigente in materia.
Nuove proposte a parte, quali sono gli effetti finora prodotti dalla legge anticaporalato?
La fase repressiva grazie a Dio sta funzionando, ci sono processi in corso nel Paese, gli organi inquirenti e la magistratura stanno facendo la loro parte. Qualcosa si sta muovendo, anche se in maniera non del tutto soddisfacente. Manca, tuttavia, l'intera parte preventiva, per la quale non è stato ancora fatto ciò che No Cap chiede da un po' di tempo, e cioè un decreto attuativo.
Una grossa lacuna.
Sì, perché non è ancora chiaro come si intenda disciplinare la Rete del lavoro agricolo di qualità (articolo 8 della legge 199). Si tratta di uno strumento pensato per incentivare le imprese che vogliano partecipare a questo percorso di legalità; è un portale digitale gestito dall'Inps e dal Ministero dell'Agricoltura. Serve a selezionare e a incoraggiare buona parte del mondo agricolo imprenditoriale. E' uno strumento importante, il più importante, di questa legge che, però, finora, è stato disatteso.
Che tipo di ostacoli sussistono?
C’è ancora molta confusione in merito. Non si riesce a comprendere come sia disciplinata la cabina di regia e di monitoraggio della filiera; chi convoca i soggetti, quando, dove, come. Nel corso di questi 4 anni, alcune prefetture e regioni hanno convocato le rispettive sezioni territoriali del Lavoro agricolo di qualità, solo che in diversi casi No Cap non è stata informata, come è accaduto a Foggia e a Taranto, per esempio. Su questo serve una disciplina, un coordinamento. Chiediamo che le sezioni territoriali vengano integrate con la nostra presenza, perché siamo tra i primi promotori di questa legge.
Secondo No cap come andrebbe articolata la cabina di regia della rete?
Noi siamo per la decentralizzazione. Chiediamo che vi siano a capo gli enti locali, cioè i comuni, diversamente da quanto prevede la legge, che attribuisce questa funzione al presidente nazionale dell'Inps. In alcune zone, ad oggi, sono i prefetti che dirigono. Insomma, c'è molta confusione. Noi vogliamo che i decreti attuativi attribuiscano ai sindaci il comando della cabina di regia perché sono i soggetti istituzionali più vicini ai territori, ne conoscono meglio le dinamiche.
Quali i requisiti richiesti alle aziende per partecipare alla filiera etica?
L'azienda non deve aver riportato condanne penali; non deve aver nessun procedimento amministrativo in corso negli ultimi tre anni; deve essere in regola con i Durc; deve applicare i contratti collettivi.
Sono sufficienti?
Ne vanno aggiunti altri. Non è un caso che in alcune zone, per esempio nel Ragusano, ci siano aziende che, nonostante abbiano aderito al Lavoro agricolo di qualità, continuano a mettere in atto pratiche illecite.
Cioè?
Va affrontata la questione del sottosalario. Serve un organo che controlli in maniera stringente se la paga prevista dal contratto coincida con quello che viene effettivamente versato dalle aziende ai lavoratori. Serve maggiore trasparenza, maggior controllo, azioni che invece vengono soprassedute, configurate in maglie giurisdizionali larghe e troppo tolleranti al fine di invogliare le imprese all'adesione (come da statuto, infatti, "il Ministero del Lavoro e l'Inps […] orientano l'attività di vigilanza nei confronti delle imprese non appartenenti alla Rete del lavoro agricolo di qualità”, ndr). Un controsenso in termini. Una cosa davvero strana, oltre che per nulla etica, secondo noi.
Risiederebbero in ciò gli incentivi previsti per le aziende “etiche”?
I numeri parlano chiaro. Su circa 1 milione di imprese agricole in Italia si stima che abbiano aderito soltanto 3mila. Sono ancora molto poche. Significa che per le aziende in buona fede questa rete non è appetibile. Non trovano nessun vantaggio. Qualcosa va rivisto e in tal senso va guardato con molto interesse il modello Emilia Romagna, che obbliga le imprese ad iscriversi alla filiera etica per partecipare ai Psr (Piani di sviluppo rurale), lo strumento in possesso delle Regioni attraverso il quale poter accedere ai fondi europei.
Sta funzionando?
Sì, l'Emilia Romagna è attualmente la regione con più numero di aziende agricole aderenti alla rete.
Altre proposte-incentivo?
Eliminazione o, comunque, forte detassazione dell'Imu agricola. Infine una questione molto importante che riguarda i marchi.
Quale?
Chiediamo la certificazione etica d'impresa, un bollino di qualità per i prodotti delle aziende “eticamente virtuose”, un po' come è stato fatto per il biologico. Il ministro Catalfo mi ha detto di volervi provvedere. Sono necessari enti di certificazione sulla natura del lavoro attraverso il quale viene realizzato il prodotto agricolo. Ad oggi tali certificazioni esistono solo su base volontaria, non c'è ancora nessuna legge che obblighi al controllo. Infine chiediamo che le imprese appartenenti al circuito siano promosse dal Governo e dagli Enti locali. Le istituzioni devono far in modo che i prodotti abbiano accessibilità ai punti vendita della grande distribuzione anche attraverso accordi vantaggiosi per le catene che li introducono nel mercato. Solo così la filiera agricola del Lavoro etico può essere realmente appetibile.
Passiamo ai lavoratori: che tipo di profilo giuridico-legale deve avere il migrante per poter essere assunto dalle aziende della rete?
Noi partiamo dal presupposto che il bracciante straniero debba essere equiparato al lavoratore italiano. Chiunque abbia un documento che attesta la regolarità sul territorio nazionale deve poter usufruire degli stessi diritti. Per una serie di dinamiche i migranti, attualmente, vengono considerati lavoratori di serie B. E’ dunque necessario abolire l’articolo 13 del Decreto sicurezza Salvini. Una norma assurda che non permette l’iscrizione anagrafica ai soggetti in possesso di regolare permesso di soggiorno. Tutto, di conseguenza, diventa complicatissimo, per non dire impossibile. I migranti si ritrovano così senza residenza e senza i documenti necessari per aprire un conto corrente o per riscuotere assegni. Condizioni tali da non permettere una loro regolare assunzione.
C’è ancora qualcosa che vorresti aggiungere?
Una questione non meno importante, anzi fondamentale. Riguarda l'intermediazione della manodopera attraverso i Centri per l'Impiego, che non funzionano adeguatamente. Attualmente intercettano solo il 3 percento del match domanda-offerta. Questo significa che vanno efficientati, altrimenti molte aziende continueranno a ricorrere all’aiuto dei caporali. Infine, è necessario che ad affiancare i Centri per l'Impiego vi siano le ‘cooperative senza terra’, le associazioni di migranti che vogliono affrancarsi dal caporalato. Questo tipo di aggregazione consapevole verso la legalità va agevolata e introdotta a pieno titolo nella rete istituzionale.
APP E MAPPE DELLA RETE. Per concludere, tra gli strumenti innovativi su cui No Cap è al lavoro e che prossimamente verrà realizzata per rafforzare il contrasto al caporalato e il supporto al Lavoro etico in agricoltura, c’è l’app multi-lingue che, a stretto contatto con le forze dell’ordine e con i legali dell’associazione, aiuterà i braccianti stranieri a sporgere le denunce. Li aiuterà, inoltre,
grazie al supporto dell’info-point CaporAlt (il progetto avviato nel Centro per l’Impiego di Foggia e portato avanti da Francesco Strippoli), a districarsi nella giungla legislativa e burocratica dell’attuale ordinamento in materia, per poterli guidare nella regolarizzazione e nell’assunzione da parte delle imprese.
Lo anticipa lo stesso Strippoli, che, oltre ad essere stato convocato per supportare le funzioni dell’applicazione, in rapporto di continua collaborazione con No Cap, ha pure provveduto a mappare sul sito dell’associazione (
www.nocap.it) i punti vendita italiani, tra supermercati e botteghe, nei quali ad oggi si possono acquistare i prodotti capo-free del progetto “Iamme”. Prodotti che, in alcune zone, in base al marketing delle aziende coinvolte, assumono denominazioni diverse, tipo “Goodland” nel Lazio.
Informazioni importanti, in tema di consumo critico, anche in tempo di coronavirus: la spesa, in questo periodo, è una delle poche cose che possiamo ancora fare. Laddove riusciamo, facciamola bene.