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Suicidio. La parola tabù che entra in classe

Ieri a Foggia un’altra vittima giovanissima. A colloquio con il professore – scrittore Giancarlo Visitilli

Le parole si sprecano tutte dopo, quando ormai non c’è più tempo. A quel punto, l’unico a vivere è il rimorso. Ti assale e cerchi di riavvolgere la tua vita, provando a rileggere in ogni parola, in ogni gesto, in ogni incontro, un piccolo segnale che temi di aver sottovalutato. “Chi muore giace, chi vive si dà pace” è uno di quei casi in cui anche i motti si rivelano fallibili. Perché per la pace, nella vita di due genitori, la famiglia e gli amici di un ragazzo che decide di togliersi la vita, non c’è spazio. SUICIDIO. È una di quelle parole che esiste più sulla carta che nella realtà. Perché nella vita di tutti i giorni è tabù. Si pronuncia sottovoce, o non lo si fa proprio. Codice deontologico alla mano e in piena coscienza, anche la nostra redazione ha scelto di omettere numerose notizie relativi a “persone che si tolgono la vita”, perché evitare il rischio di emulazione è più importante di qualche clic in più, garantito dalla morbosità verso questo tipo di notizia. Da noi non saprete chi era, quanti anni aveva, come e dove è morto quel ragazzo foggiano di cui oggi si parla in città. Ma del fenomeno, questo sì, ne sentirete ancora parlare. Perché non sia più un tabù.
Oggi ne parliamo con Giancarlo Visitilli, un giovane  professore pugliese. Lo contattiamo telefonicamente mentre è di ritorno da Roma, dove ieri ha presentato il suo libro “E la felicità, prof?” edito da Einaudi. A un certo punto è stato lui stesso a tirar fuori l’argomento del suicidio, come fa nel suo libro che raccoglie ventinove storie di ragazzi. “Tutte storie vere – ci tiene a precisare - anzi così vere che ad alcune ho dovuto togliere alcuni particolari reali, altrimenti sarebbero sembrate troppo costruite”. Ha citato il caso del ragazzo foggiano e poi, mentre tutti si affannavano a reperire informazioni sull’Ipad, ha posto una semplice domanda: “E la scuola che fa?”.
Lei però nel suo libro fa emergere questi temi, citando casi reali che l’hanno vista coinvolta come docente. Perché è così difficile affrontarli in un luogo come la scuola?
“Temi difficili come quello del suicidio, ma anche quello dell’omosessualità e dell’eutanasia che cito nel mio libro, restano dei tabù. Non se ne vuole, non se ne può e non se ne deve parlare. Anche durante le presentazioni del libro, sono rarissime le volte in cui questi temi riescono a venir fuori. È un peccato, perché poi la reazione delle persone è impetuosa. Vogliono parlare, vogliono discutere, vogliono dialogare su questi temi. E se la scuola decide di tirarsi indietro, è grave”.
Eppure sono domande che i ragazzi si pongono continuamente.
“Assolutamente sì. Nel mio libro c’è un pezzo in cui si evidenziano le reazioni dei ragazzi al racconto di uno studente sul suicidio del padre. Subito dopo, la professoressa di scienze si  è sentita chiedere: Cosa avviene nel cervello quando si decide di compiere un gesto così forte? Da dove si prende il coraggio? C’entra la chimica?.
Se lo sarà sentito chiedere anche lei. Cosa risponde a chi le chiede ‘Cosa può spingere un ragazzo a togliersi la vita’?
“E cosa puoi mai dire? Soprattutto dopo il caso del ragazzo di Roma dei giorni scorsi, mi chiamano spesso per chiedermi una dichiarazione o un commento sul fenomeno. Ma cosa vuoi dire? Cosa puoi dire a un genitore a cui è accaduto il dramma peggiore della vita? L’unica risposta possibile è la discussione, costante, quotidiana. Senza tabù. In ogni classe, ci sarà almeno la metà degli alunni che ha problemi a casa, perché il padre ha problemi al lavoro o perché il rapporto tra i genitori non è idilliaco. I ragazzi vogliono essere ascoltati, non possono sempre sentire il prof di turno che parla di qualcosa che è lontano da loro”.  

Non parlarne è sbagliato, però anche discuterne rischia di diventare controproducente se non è fatto bene?
“Bisogna essere molto cauti. Quando si parla di questi temi, è fondamentale riuscire a spiegarsi bene. Ad esempio, colleghi ed esperti mi ripetono sempre che proprio i ragazzi che incalzano nelle domande, sono i casi potenzialmente più pericolosi, perché vedono il suicidio come se fosse una prova. In pratica è come se volessero provare questa emozione, convinti che comunque accadrà qualcosa che non gli permetterà di concludere il proprio atto. In sostanza, per loro, è una domanda simile a quando ti chiedono cosa succede a provare determinate sostanze”.

di Redazione 


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