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“Quel fine settimana non tornai a Foggia…”: il terremoto dell’80 nel ricordo di chi, quel 23 novembre, era a Napoli

Una storia vera di Salvatore Aiezza

23 novembre 1980. Domenica. Una tranquilla giornata, forse un po’ afosa, per il periodo, ma nulla di particolare. Del resto, noi studenti universitari che risiedevamo a Napoli eravamo abituati alla mitezza dell’autunno partenopeo. Quel giorno eravamo rimasti in quattro nella casa dove abitavamo. Un’abitazione in uno di quei palazzoni settecenteschi, nei quartieri, proprio a ridosso di Mezzocannone e poco dopo l’ospedale.

LE CASE. Un vecchio palazzo, con l’androne, enormi scalinate a vista sormontate da archi e pianerottoli dove si affacciavano tre quattro case per piano. La nostra era al terzo. Ogni volta che dovevamo salire era una fatica, seppur eravamo giovani. I gradoni erano alti e così ogni scala era come se raddoppiasse. Le case erano quelle storiche di Napoli. Ampi vani, volte altissime, muri doppi e pavimenti…Ecco! Quelli si! Destavano sempre qualche preoccupazione. Infatti il calpestio procurava leggeri tremolii, a volte rimbombavano persino i muri, specie quando lungo il corridoio passava la padrona di casa. Un donnone grande e grosso: sulla sessantina; la tipica donna napoletana. Perennemente con il grembiule da cucina. Quando passava lei, davvero sembrava il terremoto! A volte, magari mentre eravamo assorti nello studi, ci faceva sussultare, insieme al pavimento e i muri! Eravamo in tre, in uno degli stanzonI di quella casa che avevamo preso in fitto. C’era un enorme finestrone, ma, per metà, i vetri erano stati “oscurati” dalla signora e se si voleva vedere oltre o affacciarsi, era necessario salire su una sedia (ci voleva coraggio però, perché le sedie, come il resto dell’arredamento mostrava tutti i suoi anni…).

NEI WEEKEND. Era difficile che i fine settimana restassimo tutti e tre a Napoli, come quella domenica. Io studiavo giurisprudenza, Michele, altro amico di Foggia, studiava architettura e Luciano, un ragazzo di Dugenta, vicino Benevento, anch’egli studente di architettura. Quel fine settimana, contrariamente a quanto avveniva solitamente, dunque non eravamo ripartiti per le nostre città, il venerdì, al termine delle lezione: avevamo deciso di restare perché il sabato dovevamo andare a vedere uno spettacolo di cabaret al teatro tenda, come infatti avvenne.

IL PRANZO. La domenica il solito giro per le vie accorsate di Napoli: Via Toledo (ex Via Roma), P.zza Dante, un salto a Mergellina e Via Caracciolo. Il ritorno a pranzo, ospiti, lo ricordo ancora nitidamente, della proprietaria di casa, alla quale portammo una “guandiera” di paste tipiche: baba’, sfogliatella e cannuoli. Quella domenica la signora, sapendo che di solito mangiavamo a mensa o ci arrangiavamo a casa con una fettina di carne e insalata, cucino’ un ottimo ragu’ con involtini e salsiccia. L’unica cosa che non tanto gradivamo, ma la signora non lo seppe mai, naturalmente, era la sua abitudine di mettere la ricotta nel sugo, ma ci eravamo rassegnati. Dopo il pranzo, piccolissimo riposo e ci mettemmo a studiare per non perdere il pomeriggio inutilmente.

LA SCOSSA. Anche la signora andò a riposare, ma i suoi erano lunghi riposini. Era quasi ora di cena: ancora alle prese con i libri. D’improvviso il pavimento inizia a tremare e i muri a rimbombare. Alzammo la testa e, come sempre, voltammo lo sguardo verso il corridoio. No! La signora non apparve sulla porta, né camminava nel corridoio. Non poteva essere che il terremoto. Realizzare il tutto fu un attimo. Precipitarsi verso le scale e scendere a grandi falcate, sino a guadagnare l’uscita e, poi, di corsa, un vicino slargo per sottrarsi a quegli enormi, vecchi palazzoni che, nei vicoli strettissimi, facevano paura nel loro ondeggiare. Un attimo, ma tutto continuava a tremare. Erano le 19.30 poco più. Durò un’eternità. In pochi minuti la piazzetta di riempì all’inverosimile di persone. Passati gli attimi di paura iniziò l’angoscia. Cosa avremmo fato? Cosa era successo? Quale estensione aveva avuto i sisma? Aveva procurato danni? Dove saremmo andati, cosa ne era di casa e dei nostri? Constatammo subito che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di rientrare in quelle case già fatiscenti. Era impossibile comunicare e sapere notizie. Non esistevano i cellulari.

LE NOTIZIE. Telefoni, luce, tutto era fuori uso. Dopo poco iniziarono ad arrivare le prime notizie, intanto che noi, insieme ad altri, avevamo raggiunto la più sicura e grande Piazza Dante. “Il terremoto è stato di 7° grado”: “No, del nono Mercalli”; “forse del decimo”. Le voci si rincorrevano e, con esse, le prime tragiche notizie. “Ci sono crolli e morti dappertutto. Anche a Napoli. “Si dice sia crollato un vecchio palazzo in Via Stadera!”. Vero, risulterà di li a poco. Tanti i sepolti vivi. Alla fine saranno 52. Anche il palazzetto dello “ Sferisteo” a Fuorigrotta gravemente danneggiato.

E A FOGGIA?. Inutile cercare notizie dalla TV. Tutto interrotto. Si cerca di arrivare a Piazza Garibaldi, alla stazione, per sapere qualcosa di più ma, soprattutto, per organizzare il ritorno a casa. Delusione. Impossibile. Il terremoto ha colpito quasi tutta l’Italia Meridionale: Campania, Puglia, Basilicata e anche qualche zona della Calabria. Ferrovie e strade bloccate. Non si parte e i treni in circolazione sono stati tutti bloccati. Oddio! Come sapere notizie di casa? Cosa sarà successo a Foggia? Ci saranno stati danni? Feriti? E come faremo a tornare a casa. Un’angoscia e un senso di impotenza ci pervadono, mentre cerchiamo di stringerci gli uni agli altri, come per darci vicendevole speranza e coraggio. Sono momenti difficili. Si sente solo l’incessante suono di sirene dei Vigili del fuoco, ambulanze, forze dell’ordine. La radio! Unica, come sempre, durante le tragedie, a portare qualche notizia. Compaiono presto radioline a pile e tutti a porgere l’orecchio. La tragedia è più grande e grave di quanto avessimo immaginato. L’Avellinese e il Beneventano semidistrutti. Interi Paesi rasi al suolo. Già si contano centinaia di morti e i soccorsi sembra non arrivino mai. Certo, sarà difficile raggiungere Paesi e villaggi tra i monti dell’appennino Campano. Intanto noi si cerca di organizzare come tornare a Foggia. Qualche bus, temerariamente ma anche strapieno di gente, decide d partire, ma verrà fermato sulla tangenziale.

IN STAZIONE. Luciano, il nostro coinquilino beneventano, cerca disperatamente di avere notizie del suo paese. Dugenta e della sua famiglia. Intanto i megafoni della stazione centrale annunciano soppressione di convogli ferroviari e ritardi di ore. Forse, ci dice qualche ferroviere, l’indomani si potrà vedere se qualche treno potrà partire. Bisogna prima controllare tutte le gallerie e i ponti. Trascorre la notte, fa freddo, è la fine di novembre, ma nessuno sembra accorgersene; solo i bambini piangono e qualche donna grida. Ogni tanto si sente qualche nuova scossa e torna la paura. La radio continua a dare notizie di morti feriti e crolli. Sant’Angelo dei Lombrdi, Lioni, Teora, Conza e Catelnuovo di Conza, luogo dell’epicentro, sembrano i più colpiti.

IL RIENTRO. Un sorriso, dopo ore, perché vediamo, tra i tanti, la nostra padrona di casa. Sempre con il suo grembiule da cucina indosso. E’ seduta su un gradone, l’avviciniamo: è felice di vederci, quanto noi lo siamo per lei. Piange e si chiede, come tutti del resto: ”Perche’?“. L’indomani, dopo esserci stesi per un po’ lungo i marciapiedi e le panchine della stazione, con l’umidità della notte che ci aveva preso tutto il corpo, cerchiamo di razionalizzare il tutto e vedere come fare per chiamare a casa e tornarvi. Luciano riesce a trovare il passaggio in auto di un compaesano e torna a Dugenta. Lo salutiamo con una pacca sulla spalla: la speranza che tutto sia a posto e la promessa di chiamare appena fosse possibile. Apprendiamo, con sollievo, che forse l’espresso delle 17.50, quello che prendevamo solitamente per tornare casa, potrebbe partire. Non mangiamo dal giorno prima e nemmeno ci interessa farlo.

LA TELEFONATA. Qualche bar ricomincia la propria attività e subito viene preso d‘assalto. Le ore non passano mai. Facciamo i biglietti per tornare a Foggia e ci avviamo verso l’espresso che dovrebbe riportarci a casa. Un colpo di fortuna inaspettato: un telefono pubblico che funziona, lo capiamo dalla fila di persone che attendono di utilizzarlo. Meno male, tra me e Michele, riusciamo a mettere insieme qualche spicciolo e alcuni gettoni telefonici. L’attesa ci sembra un’eternità. Finalmente arriva il nostro turno. Sentire la voce dei propri cari e piangere di gioia sapendo che tutto è OK ci rincuora e rassicura. Sono preoccupatissimi, è ovvio, per noi. Hanno sentito le notizie dalla Tv e la radio. Anche loro sono felici di sentirci e ci chiedono subito quando riusciremo a tornare. Gli diciamo che partiremo, speriamo, con il treno delle 17.50 , ma non sapremo quando arriveremo. L’espresso , alle 18.00 ancora non parte. E’ pieno all’inverosimile. Partirà solo dopo le 19.00,ma il viaggio sarà un’odissea. Si cammina lentamente e ci si ferma praticamente ogni cinque minuti. Sui ponti e nelle gallerie si procede a passo d’uomo. Ad un certo punto ci trasbordano su un autobus perchè la linea ferroviaria è impercorribile. Comunque sia, a notte fonda arriviamo a Foggia.

I SEGNI NELL’ANIMO. La stazione sembra una piazza affollata di gente. Una folla incredibile di persone: tra coloro che sono ancora all’aperto, perché anche nella nostra città il terremoto è stato forte, seppur non ha procurato danni, e in tanti hanno ancora tanta paura di rientrare nelle loro case, e quanti cercano notizie: alcuni si arrabbiano per gli incredibili ritardi e le improvvise cancellazioni. Tra la folla riusciamo a scorgere i visi familiari dei nostri genitori che avevano aspettato pazientemente per ore, il nostro arrivo. Gli abbracci, i pianti, la fine di un incubo. Resteranno per sempre i segni: nel fisico, grazie a Dio, no. Ma nell’animo nessuno potrà cancellarli.
Salvatore Agostino Aiezza

di Redazione 


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