Premessa: la scelta dei termini, in questo Paese, è abbastanza
soventemente infelice, e denota come tante tante persone abbiano saltato
le lezioni delle elementari in cui si spiegava l’analisi logica, e non
si siano poi informati dei compiti a casa dai compagni.
CONTRO IL FEMMINICIDIO. Per capirci, che significa la settimana “contro” il femminicidio? Conoscete qualcuno che sia a favore? (ai generi delle suocere impossibili: no, aspè, la domanda è retorica…). Alcune settimane fa, nelle ore immediatamente successive all’approvazione alla Camera delle misure dirette ad arginare il brutale susseguirsi di fatti di cronaca arcinoti che non riporterò, un troppo tempestivo quotidiano on line titolava “Femminicidio, è legge”, inducendomi ad andare al supermercato a fare una scorta di viveri per asserragliarmi in casa onde evitare qualche cittadino troppo ligio alle normative si considerasse in dovere di applicare questa nuova legge.
Parliamo dunque sì di alcune delle iniziative, numerose e assolutamente degne di nota, tutte, che si sono susseguite qui in città come nel resto dell’Italia per ampliare la sensibilizzazione e la presa di coscienza della società civile sulla questione che un problema di violenza di genere, in Italia, c’è; ma parliamo anche di cose che non c’entrano direttamente, e però c’entrano lo stesso.
LE DONNE IN TV. La nostra tv generalista, sempre attenta a cogliere il destro per riempire i palinsesti senza spendere troppo per degli autori degni di tale appellativo, ha usato questa occasione come fa con le giornate delle raccolte fondi più svariate, ricerca&malattieterremotisantuaridacostruire, invitando un po’ di gente che portasse testimonianze, ordinando a conduttori e conduttrici di mettersi la faccia dall’espressione più compunta tra quelle appese in camerino, zoomando sull’emotività di persone che in un contesto lontanissimo dal proprio quotidiano devono ripercorrere ricordi dolorosi. Io naturalmente non ce l’ho con la comprensibilissima rabbia della signora che vede tutti i giorni al bar di fronte casa sua l’assassino di sua figlia, uscito di galera dopo 3-5-7 anni/mesi/settimane/prescritto e/o aberrazioni varie sul tema. Ma questo non è un problema della violenza di genere, giusto? Questa è una metastasi di un cancro devastante, il sistema giudiziario, sul quale l’attenzione non viene invece mai portata in maniera corretta ma sempre e solo in termini giustizialisti e spettacolarizzanti.
Quello che pare proprio non lambire nemmeno da lontano la nostra tv generalista, come certa stampa e certi catechisti, è che parlare della violenza di genere in un contesto salottiero dove la conduttrice donna presenta la rubrica del gossip e il conduttore uomo intrattiene gli ospiti politici è indice abbastanza lampante di come la violenza di genere sia instillata su modelli culturali sbagliati, profondamente sbagliati. E non devo scomodare nessun autore di saggi storici per sostenere la tesi, evidente agli occhi anche dei meno attenti, che i modelli educativi che viviamo o osserviamo sono mutuati anche dalla tv. Se un presentatore, uno dei più professionali tra l’altro, conduce in maniera egregia un quiz preserale solo contornato, non affiancato, da 4 donne che chiama “professoresse” alle quali lascia il compito di leggere risposte confezionate con un linguaggio povero e scarno e magari ne cerca la complicità solo per irridere quanto siano stonate (vedi L’Eredita, Rai Uno), chi ascolta frettoloso perso nei casi suoi non si fa l’idea che una “professoressa” sia una figura di rilievo culturale meno importante rispetto ad un uomo, che gestisce da solo tutto il circo? Se una nota e apprezzatissima ditta locale produttrice di biscotti manda in giro un spot celebrativo del cinquantennale di attività, nel quale per omaggiare la tradizione il papà degli anni ‘60 legge il giornale seduto al tavolo del tinello mentre la mamma lava e asciuga i piatti, non stiamo dicendo che la tradizione è buona e giusta come i biscotti?
Giorni fa una bella ragazza foggiana si è presentata a un’altra trasmissione di prime time di Rai Uno, gonna cortissima, voce soave e sguardo sognante mentre diceva che lei è una ragazza “d’altri tempi” perché sogna marito e figli. Le donne moderne si riproducono per partenogenesi, a differenza di quelle d’altri tempi, sembrava la chiosa (la bella foggiana ignora che le “ragazze d’altri tempi”, se non erano ricche, sgobbavano come le donne moderne che non vivono di rendita, altro che solo mogli e mamme. Studiare pure, anche se donne, talvolta verrebbe utile).
IL NASTRO SULLA BOCCA. Ho considerato forte la scelta delle ballerine che hanno animato una delle iniziative della settimana, guidate da Ada Santamaria, che hanno danzato con il nastro nero sulla bocca ad indicare che la donna non ha voce, o che la sua voce non è tenuta nella giusta considerazione. In parte lo condivido. Però poi penso a quante hanno scelto di tenerselo, il nastro nero sulla bocca, perché il ruolo dell’eterna vittima è doloroso sì, ma porta in dote l’utile secondario non indifferente di non prendersi la responsabilità di pretendere nuovi modelli culturali nei quali agire da protagoniste, con il peso delle conseguenze belle e brutte che agire da protagonisti comporta.
CHIAMARLO AMORE NON SI PUO'. Più di tutto mi è piaciuto il lavoro proposto dalla casa editrice Mammeonline, di Donatella Caione, il libro “Chiamarlo amore non si può”, AA.VV., presentato a Foggia presso la libreria Stilelibero il giorno dopo avere mietuto consensi alla camera dei Deputati a Roma; una bella e tenace realtà foggiana, questa casa editrice, che con tutta la sua opera si impegna per scardinare questi stereotipi che non permettono la vera evoluzione di nessuno, e fanno restare fermi al palo tutti, uomini e donne, impegnati a sedursi e contemporaneamente a difendersi gli uni dalle altre invece che a comunicare per crescere insieme.