Tra buio e luce, il “day after” rossonero: “Ancora qua stiamo?”
La serie C è un concetto che si ripete ogni giorno, da 18, anzi 19 anni
Apri gli occhi l’indomani, e sei ancora in serie C. Non in Lega Pro, proprio in serie C. Al buio. Un concetto, più che una categoria. È così che la pensi. Che la vivi: dentro, nel fondo, in quella parte di te che di sportività e ammissione di sconfitta non vuol sentir parlare. Solo emozioni, immagini, emotività, laggiù. Solo pancia.
IL GIORNO DELLA MARMOTTA. “Ancora”, ti dici, “ancora qua stiamo”, come in quel vecchio film con protagonista Bill Murray nelle vesti di un insopportabile meteorologo, condannato ogni mattina a rivivere sempre lo stesso “Giorno della marmotta” in una cittadina sperduta della Pennsylvania ("Ricomincio da capo", il titolo). Ogni mattina alle sei suona la stessa sveglia, la stessa radio sintonizzata, lo stesso brano. Ogni giorno ad inciampare nella medesima pozzanghera, a dire identiche scempiaggini televisive al microfono. Ogni sera a tentare di sedurre, senza successo, la bella Andie MacDowell.
ROBA DA SERIE C. Il Giorno della marmotta del Foggia Calcio dura da diciotto anni. Diciannove, dopo ieri. E ogni anno, benché diverso per categorie e giocatori, sembra sempre lo stesso: campetti indegni per la storia rossonera entro i quali litigare, teatrini cialtroneschi di tecnici poco avvezzi alle sale stampa, dicerie societarie, sgrammaticature dirigenziali più o meno volute (vedi, non a caso, Pisa), partite sospette o sospettate a posta e, immancabili, brutali barricate davanti alle porte, con tanto di sceneggiate attoriali per guadagnare tempo che poco hanno a che fare con lo sport vero. Roba da serie C, insomma.
BARRICATE, NERVI E GOFFAGGINI. Un repertorio che, in buona parte, non è mancato nemmeno ieri: ha vinto una squadra che si è barricata dietro, che ha giocato sui nervi, sulle simulazioni, in campo e in panchina (la bottiglietta in testa all’allenatore è un gesto ingiustificabile, ma lo è anche quello di esacerbare gli animi fingendo di aver ricevuto un colpo di pistola). E ha perso una squadra che, nonostante il calcio propositivo e bello fatto vedere lungo tutto l’anno, nella gara d’andata di questa finalissima ha regalato un vantaggio causato da una serie di errori difensivi figli della terza serie, tra lisci, goffaggini e interventi innaturali da “coppe e rigori”, tanto per essere buoni.
LE ALTRE “C”… E LA LUCE. Per passare, al Foggia è mancata anche un’altra “C”, quella del famoso fattore, e questo non solo nell’ultima gara della stagione (se una squadra con fior di tiratori sbaglia più del 50% dei rigori che gli vengono assegnati, è perché c’è qualcosa nell’aria). Ciò che gli resta, però, è la “C” della parola “consolazione” che, guarda caso, è la stessa lettera della parola “curve”: rivedere circa ventimila persone a far tremare lo Zaccheria, e rivederle in quel modo, come neanche dieci anni prima in occasione dell’altra finale maledetta giocata contro l’Avellino, è un qualcosa che si fa fatica a descrivere. Ti resta laggiù, anche questo, nel fondo, a rendere meno oscuro un incantesimo che, come nel film citato, sai che prima o poi si dovrà rompere. Quando? Non si sa. Ciò che si sa è che per uscire dal buio di questo risveglio c’è solo un modo: la luce. Tanto vale dunque affidarsi a chi in campo, quando giocava, era soprannominato proprio in quel modo. Provare a non farlo andar via. E, con lui, ricominciare. Ricominciare dal gioco e dalle curve. Ricominciare da capo.
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