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Foggia Village / Donatella Di Pietrantonio e i libri che camminano con noi

L'articolo che state leggendo, e che credo resterà uno dei brani più personali che potrò mai scrivere, affonda le sue radici in un fatto di cronaca lontano, in un agosto di fine secolo scorso, e fine millennio, nel 1997.

IL DELITTO DEL MORRONE. Un pastore macedone, impegnato al lavoro sui monti della Maiella, aggredì un gruppo di ragazze che si imbatterono in lui durante una escursione. Due vennero uccise, la terza si salvò fingendosi morta. Io ero all'incirca coetanea delle vittime, descritte come brave ragazze impegnate nel sociale, attive in parrocchia, appassionate di natura e vita all'aria aperta: immedesimarmi fu un processo subitaneo. Quelle ragazze mi sono entrate nel cuore, e quasi trent'anni dopo ancora so i loro nomi; Silvia, Diana, Tamara. Singolare, poiché questo delitto, sebbene ebbe una eco fortissima ai tempi - essenzialmente perché l'autore era un immigrato della prima ora, con il carico di conflitti umani e sociali che questa circostanza scatenava, e in realtà ancora scatena- fu poi oggetto di una rimozione collettiva e non è mai più tornato alla ribalta, a differenza di altri casi di cronaca nera purtroppo famosi.

RACCONTARE I "RAPPORTI FONDATIVI". Il secondo livello di fondamenta di questo pezzo risale all'inizio del 2011. Come tutti, non so dire se siano i libri a fare da puntello nella nostra memoria per fissare degli eventi significativi, o viceversa se non siano le vicende complesse a rendere eterni i libri che ci accompagnano attraverso di esse. So che allora affrontavo l'ennesimo trasloco, e un nuovo lavoro, e il libro che mi faceva da supporto era Mia madre è un fiume, esordio di una scrittrice ai tempi del tutto sconosciuta, e tale sarebbe rimasta per alcuni anni, Donatella di Pietrantonio. In questo profondo, toccante romanzo, di cui conservo fiera una prima edizione, l'autrice ha rivelato un talento spiccato per la scrittura, e una capacità non comune di raccontare le relazioni familiari, i lacci emotivi dei rapporti diretti, i chiaroscuri che determinano che persone saremo nel mondo. Rapporti fondativi, quelli che avrebbero per loro natura la tensione ad essere franchi, lineari, scoperti, e che invece per via della forza dei sentimenti che li investono diventano viluppi intricati, grovigli che attanagliano. Quando, nel 2017, la stessa scrittrice pubblicò L'arminuta, romanzo dallo stile asciutto e senza pietismi e allo stesso tempo affilato e inesorabile, il popolo dei lettori finalmente le attribuì il successo e i riconoscimenti meritati, mentre io mi sentivo una talent scout, che aveva avuto il privilegio di apprezzare quella bellezza con tanto anticipo.

L'ETA' FRAGILE. Ancora un balzo in avanti, al 30.12.2023, la data la so con certezza perchè era il compleanno di mio nipote. Siamo usciti per andare in fumetteria a scegliere un regalo, per la gioia dei piccoli, e poi siamo passati in libreria, per accontentare i grandi. Ho visto sull'avancassa da Ubik il titolo nuovo di Donatella Di Pietrantonio, L'età fragile, ancora neppure sapevo che fosse in uscita. Un'occhiata veloce alla trama sul retro della controcopertina, ho ricevuto un colpo sordo al cuore. Un solo cenno in una frase breve, "tre ragazze che non c'erano più", l'Appennino citato di striscio, e ho saputo che in quel libro c'erano Silvia, Diana, Tamara. In realtà no, il libro non è la storia di quel delitto, neppure romanzata. Ma quella vicenda, trasfigurata, è il tabù intorno a cui si costruisce il destino dei protagonisti, che resta incompiuto e depauperato di forza, schiacciato dal peso di un silenzio che ha tracciato il tempo e il cammino. Una madre e sua figlia, e una figlia e suo padre: rapporti fondativi. Un territorio percepito come un pezzo di sé stessi, una comunità che crede di sapersi proteggere, prendersi cura; persone che condividono un intorno e un contesto fisico, e che sono invece ciascuno isolato in uno spazio siderale inconoscibile agli altri.

L'INCONTRO CON L'AUTRICE. A un mese esatto dall'epifania che ho ricevuto in libreria, il 30 gennaio scorso, Donatella Di Pietrantonio è stata l'ospite attesissima di un incontro molto partecipato, nella Sala del Tribunale a Palazzo Dogana piena come mai accaduto prima per uno scrittore. Un folto pubblico che ha seguito la conversazione punteggiandola con domande pertinenti, colme di interesse, con una lunga fila per il firmacopie che ha fatto slittare di almeno un'ora la tabella di marcia. Del resto, come dice lei stessa, è negli incontri con i lettori che viene fuori davvero cosa c'è nel libro, e lo stesso autore non ne è consapevole, quando consegna il libro alle stampe. Invece così, incalzata, Donatella con garbo e autenticità ha potuto raccontare di sé, del suo amore per la sua terra, l'Abruzzo, terra avara di collegamenti e prospettive, dell'ostinato amore di quelli che rifiutano di partire alla volta di lidi più comodi, rappresentato dalla parola "restanza", quelli che non vogliono più Londra o Milano, come Amanda, giovane protagonista del romanzo, e scelgono di popolare la montagna, aspra, severa. Ha raccontato del dramma di una società evoluta, come la nostra, che ha contribuito a "costruire" un assassino quale il pastore macedone, respingendolo oltre i margini di qualsiasi contesto umano accettabile, ed è forse in questa responsabilità la chiave di lettura che spiega la rimozione dalla memoria di un fatto di sangue così efferato. Ha spiegato il suo punto di vista sulla differenza tra il silenzio e il non detto, mettendo in guardia dai tumori derivanti dall'incistarsi delle cose non dette. Un libro che non dovreste perdere, di quelli che anni dopo sai cosa ti accadeva mentre lo stavi leggendo.

(Giuseppina Dota)

di Redazione 


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