La mafia foggiana in quattordici racconti più prologo: il libro del giovane Antonio Colasanto
Si intitola “Favugne”, di recente pubblicazione
Giovane giurista foggiano, da dieci anni a Milano prima per studio, poi per lavoro. Analista presso L’OMCOM (Osservatorio Mediterraneo sulla Criminalità Organizzata), nonché creatore della pagina Facebook “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Esperto di fenomeni mafiosi, in particolar modo di quelli che riguardano la sua provincia. È Antonio Colasanto, l’autore di “Favugne. Storie di mafia foggiana”, libro di recente pubblicazione per i tipi di IBC Edizioni: un excursus narrativo sulla criminalità organizzata di Foggia, concentrato in quattordici capitoli più un personalissimo prologo. Qui, l’autore racconta il giorno in cui ha “incontrato” per la prima volta la mafia foggiana: il 21 settembre del 1999, quando per sbaglio fu assassinato il pensionato Matteo Di Candia, a pochi metri dal luogo in cui Colasanto, allora dodicenne, giocava a pallone con i suoi amichetti.
In questa breve intervista, l’autore parla del suo lavoro editoriale e della realtà criminale locale.
Il libro parte dalla nascita della mafia foggiana e arriva fino agli ultimi fatti di sangue. Ma i racconti hanno un taglio narrativo, come mai questa scelta? Non volevo realizzare un libro eccessivamente tecnico, ci sono esempi ben più meritevoli, su tutti il testo di Antonio Laronga. L’idea è quella di dare più attrattiva, rivolgendomi ai giovani magari, stimolando la loro attenzione con notizie storiche, accertate, però riportate attraverso una modalità non storiografica o particolarmente pesante.
Nel libro, sin dagli anni ’70 e ’80, scorrono i nomi delle batterie storiche della criminalità locale. Nomi che, ancora oggi, sono “attivi” sul territorio. Come mai? Sono clan di tipo familistico, uniti da un vincolo di sangue: il più difficile da scalfire. Le nuove leve, per così dire, fanno fatica a inserirsi, a emergere, a prendere il comando, e questo comprova la forza delle famiglie più antiche. I Frascolla, ad esempio, di cui parlo nel libro, hanno cercato di prendere in mano il potere ma non ci sono mai riusciti, anche con i grandi capi dietro le sbarre.
Che percezione si ha della mafia foggiana lassù a Milano?
La percezione che c’è è quella di una provincia abbandonata a se stessa, dove le organizzazioni agiscono alla luce del sole, con poche forme di repressione anche se, va detto, negli ultimi dieci anni ci sono state, anche molto importanti. Diversi criminali sono finiti dietro le sbarre e ci resteranno per tanto tempo. A nord Italia, comunque, è ben chiara la pericolosità di questa mafia.
Ha mai avuto a che fare direttamente con qualche elemento della criminalità foggiana? Nel libro parlo di Antonio Bruno, figlio di Rodolfo Bruno, il “cassiere” della batteria Moretti-Pellegrino-Lanza, nonché nipote di Gianfranco Bruno detto “il primitivo”. È una mia conoscenza indiretta, con la quale ho avuto a che fare in un’occasione in particolare. Accadde tanti anni fa, lui era appena diciottenne. Non sapevo chi fosse, l’ho saputo dopo. Ma già nei modi di fare, nel suo essere smargiasso, ho intravisto ciò che sarebbe diventato. Malgrado questi comportamenti però, come scrivo anche nel libro, io continuo a sostenere che Antonio Bruno sia un chiaro esempio di chi è vittima di certi codici familiari: non aveva la vena criminale di suo padre, ma è finito in carcere lo stesso.
L’autore e giurista Antonio Colasanto tornerà a Foggia? Ne ha voglia? Mi piacerebbe, sì. Mi sono reso conto che, soprattutto quando sono andato via, si è sviluppato un certo cordone ombelicale con la mia terra. Pensavo che andandomene lontano non avrei sentito la mancanza e invece no, l’ho sentita e la sento ancora. Diciamo che dentro di me, malgrado le difficoltà del territorio, si è sviluppata una sorta di “logica della restituzione”, per cui mi piacerebbe tornare per fare qualcosa di buono, per migliorare la mia città. Forse, anche questo libro, nel suo piccolo, può essere un modo per dare una mano.
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