Il re muore, viva il re… o forse no: l’assurdo di Ionesco targato Teatro dei Limoni
Spettacolo corale, il primo in cartellone
Una crepa nel muro che nessuno è riuscito a riparare. Ragnatele che ritornano, anche dopo che sono state spazzate via. E poi lo scettro che sfugge dalle mani, è più bastone che simbolo di potere. Sono i segni inequivocabili della fine: d’altronde, “Il Re muore” è il titolo dell’opera di Eugène Ionesco da cui è tratto “Senza di me”, il primo spettacolo della XVII edizione di Giallocoraggioso, la rassegna del Teatro dei Limoni che si è aperta nel weekend del 24, 25 e 26 ottobre (foto di Monica Carbosiero).
IL PRIMO A MORIRE. Il re muore, dunque, viva il re. O forse no. Perché se il re che muore è Bérenger la cosa è più complessa: “crede di essere il primo a morire”, lo si accusa; “ciascuno è il primo a morire”, lo si difende. Da un lato Marguerite (Francesca De Sandoli), la prima moglie che gli sbatte in faccia la realtà; dall’altro Marie (Meggie Salice), la seconda, che lo compiange e si illude di salvarlo con l’amore. E lui, re dell’universo o presunto tale, re di una storia che attraversa le ere – “sembra invecchiato di quattordici secoli” – si rifiuta di accettare l’impotenza, rifugge non già la morte, che accetta o dice di accettare, quanto più l’idea di non esserci. Di credere che il mondo possa continuare senza di lui – “senza di me”, appunto.
DUE RE, UN SOLO EGO. Il re di Ionesco nella direzione di Roberto Galano si sdoppia: è prima giovane (l’attore Christian Di Furia), poi vecchio (lo stesso Galano), ma la natura non cambia. L’ego è uno, unico ed esondante, cieco e visionario, sia quando gli viene comunicato che “morirà alla fine dello spettacolo, esattamente tra un’ora”, sia quando gli si impetra di essere presente, di rifuggire il passato, scacciare ogni idea di futuro – “esiste solo un presente interminabile”. Uno spettacolo corale ben reso, di non semplice esecuzione, pietra miliare dell’assurdo a teatro dove si ride e ci si commuove con il medesimo senso di straniamento, figlio di una poesia che rifulge da un testo datato 1962 e ancora così vivo, così attuale, così misterioso.
PER SEMPRE. Giuseppe Rascio, Stefano Dragoni e Graziana Cifarelli completano la scena: il primo è il medico del re – incarna quella scienza fredda che non spera né cura – ma è anche il suo giullaresco boia; il secondo è soldato fidato e suo appassionato aedo – ne canterà le gesta, tanto reboanti quanto inutili; la terza è la serva che durante il rito dell’immersione nei ricordi proverà a lavargli via, letteralmente, l’amarezza, rendendo tutto ancora più amaro. «Perché sono nato se non doveva essere per sempre?» Si chiede Bérenger, ad un tratto, nella sua sfrenata e frustante umanità. Già, perché?
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