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Alla Piccola Compagnia Impertinente “si torna” umani: “I don’t care”, faccia a faccia con i social

Il progetto di performing art di Pierluigi Bevilacqua

Noi. Non. Siamo. Felici. Detto così, con una pausa lunga dopo ogni parola. Svelando un segreto che non è un segreto, piuttosto un sospetto: un difetto di fabbrica di quel fantastico mondo che chiamiamo social. Social network.

TRA SCHERMI E VITA. È l’idea di performing art della Piccola Compagnia Impertinente; è “I don’t care”, secondo spettacolo – premiatissimo in Italia e all’estero – della “Stagione impertinente”, in scena il 17 e 18 novembre (ore 21) e domenica 19 novembre (ore 19), nello spazio di via Castiglione, Foggia (con dibattito aperto sul tema “Dipendenze” la mattina del 19, in collaborazione con Emmaus). Tutta l’irriverenza della compagnia guidata da Pierluigi Bevilacqua, ideatore e regista di una performance teatrale di soverchiante forza scenica, in cui smartphone, schermi, messaggi subliminali e non, contendono il palco – e la vita – agli esseri umani del Terzo Millennio. Quest’ultimi, abilmente interpretati da Asia Correra, Francesca Camplese, Mario Mignogna, Veronica Ricucci e Arturo Severo.

GLI UTENTI FELICI. Sono loro gli “omini neri” dello spettacolo. Utenti anonimi che, per gran parte dello show, chinano il capo davanti alla dittatura della rete: il mondo dei social li domina, li distorce, ne fa proiezioni dei loro stessi schermi roteanti – e in scena roteano, danzano, saltano e vanno giù realmente, come pupi siciliani alle dipendenze di qualcosa che sembra essere sfuggito di mano. Una dipendenza – parola chiave di tipo clinico – che produce una narrazione di felicità che forse, probabilmente, proprio felice non è.

IL CIELO DI BIT. Il velo cala e si alza quando la vita irrompe per davvero, senza schermi, senza smartphone, senza connessione. Il sentimento che lega due persone è (ancora) in grado di aprire un varco nel “cielo di bit” che è calato sul mondo: improvvisamente, “taggare”, “messaggiare”, “condividere” sono parole che non valgono un tocco, una carezza, un sano momento di solitudine.

RESTIAMO UMANI. “Stay Human” si legge alla fine, nello schermo che fa da sfondo unico allo spettacolo, scuotendo, interrogando il pubblico. Poco prima, un monologo appassionato – dell’ottima Asia Correra – parla di teste poggiate sulla curva delle spalle, di libri che scivolano durante il sonno, di silenzio: è teatro ma il contesto, il mondo, ne fanno quasi un “I Have a Dream” politico. “Restiamo umani”, allora. Torniamo, umani. Ma basterebbe anche solo ricordare, tra un like e l’altro, di esserlo ancora, umani.

di Alessandro Galano


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