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Giordano in Jazz versione “latin”, Stefano Bollani è un’amabile certezza

Il concerto di martedì 13 novembre: sonorità “brazil”

Bollani uno di noi, avrebbero cantato allo stadio. Talmente alla mano – “easy”, si dice ora – da sembrare davvero uno qualunque, passato da queste parti per caso e ritrovatosi con un pianoforte sotto le dita, a suonare, sul palco del Teatro U. Giordano di Foggia. Ma Stefano Bollani non è “esattamente” uno di noi e il concerto di ieri sera, martedì 13 novembre, con la casualità non ha nulla da spartire: tanto l’artista quanto l’arte proposta, infatti, rappresentano il vertice di uno stesso triangolo, esito di un lavoro d’altro pregio in grado di fondere pubblico e privato.

DA CHICK COREA A STEFANO BOLLANI IN UN ANNO. Esattamente un anno fa, pertanto, il 6 novembre 2017, suonava sullo stesso palcoscenico un certo Chick Corea – insieme con Steve Gadd, altro pezzo da novanta – e prima ancora John Scofield, The Manhattan Transfer e altre stelle internazionali di questo genere musicale, pur con le dovute variazioni sul tema, tutte ospiti del Giordano in Jazz. Con il suo fare semplice, straordinariamente empatico, Stefano Bollani rappresenta la continuazione e la conferma di una programmazione culturale – quella targata Assessorato alla Cultura e Moody Jazz Cafè – che, in questi anni, è cresciuta sempre di più, riportando Foggia – e il suo luogo artistico più rappresentativo – sui circuiti nazionale ed extranazionali. E a sottoscrivere questa familiarità con i “giri che contano” è lo stesso pubblico del Giordano, ieri sera pronto a raccogliere gli ammiccamenti dell’eterno giovanotto del pianoforte italiano, bravo a innescare la fiamma dell’entusiasmo e a trascinarsi dietro l’ennesimo sold-out, persino sfidando simpaticamente il pubblico a portare tempi difficili per chiunque.

FEDELE A SE STESSO. Per chiunque, appunto, ma non per lui. Perché se nell’aspetto, nei modi di fare e di essere Stefano Bollani è uno di noi, di certo non lo è dal punto di vista artistico: “Che Bom”, l’ultimo lavoro discografico che ha toccato anche Foggia, tra svariate tappe nazionali e mondiali, fa il paio con quell’altra perla datata 2007, “Carioca”, e suggella – qualora ce ne fosse bisogno – la grande qualità e personalità di questo straordinario compositore e pianista. Sullo sfondo restano le sonorità brasiliane ma, a voler fare un confronto, in quest’ultima prova Bollani rivela tutta la sicurezza e la goduria – non c’è termine migliore – impiegata nel voler suonare ciò che più gli piace e nel modo a lui più naturale, libero d’essere fedele a se stesso – cioè, con ogni probabilità, al numero uno dei pianisti italiani.

VELOSO NON C’E’, MA C’E’ BOLLANI. Suona Chico Buarque, imperversa sulle samba-jazz che danno struttura al concerto, si sofferma nella bellissima “Creatura dorata”, rara ballad nel debordante latin jazz del repertorio, duetta e insegue le percussioni del giovanissimo e talentuosissimo Thiago da Serrinha, talora battendo sulle corde del pianoforte, sul legno della cassa, talaltra giganteggiando sulle note più estreme della tastiera, senza mai dimenticare la melodia – l’essenza più profonda di qualsiasi sonorità che voglia dirsi brasiliana prima e sudamericana poi. L’esempio è nell’unica cantata, il brano intitolato “La nebbia a Napoli”, nel disco composto dal pianista italiano per la voce del grande Caetano Veloso: “La canto io però”, dice Bollani, “Veloso non c’è”. La gente sorride, il pianoforte attacca e il primo bis è una sorta di corteggiamento impossibile formato poesia – o viceversa – che “stende” il pubblico prima del secondo e ultimo bis, a chiudere i conti, per così dire, riportando tutto a casa: “Brazil”. La melodia latina delle melodie latine.

di Alessandro Galano


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