Giordano in Jazz, il giovanotto Stanley infiamma il pubblico
Chiusura importante quella di ieri, venerdì 20 luglio, in Piazza Battisti
Vedi alla voce “energia”, troverai un giovanotto di 67 anni con un basso tra le mani che fa saltare la folla a ritmo di funk. Un modo alternativo per dire Stanley Clarke: stella della musica internazionale, del jazz-fusion in particolare, protagonista della seconda e ultima serata del Giordano in Jazz, andata in scena venerdì 20 luglio nel capoluogo dauno e organizzato dall’Assessorato alla Cultura in collaborazione con il Moody Jazz Café.
DA FOGGIA, CALORE ITALIANO. Una chiusura ad alto tasso di qualità e tecnica quella di ieri sera, largamente assecondata da un pubblico attento ed entusiasta, partecipe del sound di un quintetto di straordinario e vario talento, guidato da un bassista e contrabbassista vincitore di ben quattro Grammy. Una sapienza artistica, quella di Clarke, evidente anche nella scelta dell’ensemble che lo sta accompagnando in questo lunghissimo tour per il mondo e che, in Italia, è cominciato proprio da Foggia – tappa d’apertura, prima di Sorrento, San Giovanni Valdarno e Fano. Uno “spot” del calore tricolore – anche in senso climatico – che deve aver convinto anche il frontman della band che porta il suo nome, divertito dai battimani del pubblico che, grazie agli aggiustamenti logistici operati in Piazza Battisti dall’Amministrazione comunale, è stato letteralmente un tutt’uno con la musica – come deve essere sempre in occasione di grandi artisti internazionali.
GRANDE SOUND, GRANDI INTERPRETI. Armonia d’insieme confermata da un dettaglio: quando il percussionista di origini afghane Salar Nadar si lascia andare ad un “solo” lunghissimo, privo di accompagnamento e nel quale ogni singola nota è data da ogni singolo dito che batte sulla pelle, il pubblico è tutto per lui, con il fiato sospeso, quasi che il musicista stesse camminando su un filo di nylon teso tra un palazzo e l’altro. Oltre a questo straordinario talento – bravo anche nello “scat”, come nel bis finale – a spiccare, nella formazione di Stanley Clarke, è stato anche il batterista Michael Mitchell: talento purissimo di vent’anni, nativo del Bronx, scoperto dal vecchio Stanley su Youtube – finalmente uno “youtuber” che sa fare “qualcosa”, verrebbe da dire – e in grado di imprimere una forza dirompente all’intero sound. A completare il cerchio magico, il pianista georgiano dalla regale discendenza classica, Beka Gochiashvili, protagonista di alcune incursioni al limite della genialità – nel brano “Song for John”, dedicato a Coltrane, il pianoforte entra con la naturalezza dei grandissimi – e, infine, le tastiere e il synth del californiano Caleb Sean McCampbell, a dare “fusion”, è il caso di dirlo, all’insieme.
“MOSTRI SACRI”. Quanto a Clarke, che dire? Quando si parla di mostri sacri ogni commento è superfluo, soprattutto quando sono così in forma… Per quelli come lui parla la storia e la storia dice “Spain”, tanto per dare un esempio, brano suonato a metà concerto ma datato 1972, parte di “Light as a Feather”, album che ha fulminato la storia del jazz deviandone il corso in direzione del cosiddetto genere “fusion” e realizzato da una band che all’epoca si chiamava Return to Forever, capeggiata da un certo Chick Corea – anche lui passato dal Giordano in Jazz, va sottolineato, neanche un anno fa. Tra gli interpreti di quella formazione storica, a conclusione della digressione, c’era un talentuoso bassista poco più che ventenne che, da lì in poi, sarebbe diventato uno dei protagonisti della scena jazz-fusion di sempre. Quanto basta per ripetere l’assunto di cui sopra: per Stanley Clarke, ogni commento è superfluo.
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