Il precedente di Avellino e la Cassazione, ecco perchè il 'caso Servitalia' può e deve fare scuola
C'è una sentenza della Corte di Cassazione, anche molto recente, la numero 2153 del 2025, che riguarda un caso analogo a quello dell'affidamento diretto a Servitalia. Basterebbe darne una lettura per cogliere la gravità di quanto accaduto a Palazzo di Città: aver affidato una fornitura di arredo urbano a una cooperativa appena costituita e in quel momento inattiva, senza che la stessa abbia documentato ‘esperienze pregresse idonee’ e senza che gli uffici le abbiano controllate. In quella sentenza scrivono gli ermellini – non la testata Foggia Città Aperta – che per l’emanazione di una determina di affidamento ai sensi dell’art. 50 comma 1 lettera b del codice degli appalti è “necessaria la previa verifica del possesso dei requisiti, tra i quali la pregressa esperienza nelle attività (oggetto di affidamento)”. Non solo. Che è ipotizzabile la sussistenza del reato di falso ideologico da parte del pubblico ufficiale che firmi la determina (art. 479 codice penale) anche laddove nella stessa non sia riportata espressamente l’avvenuta verifica in quanto – confermano i supremi giudici - “la determina emessa vale implicitamente ad attestare il possesso dei requisiti”.
IL PRECEDENTE. La questione ha aspetti di complessità ma affinché sia chiara va sviscerata anche nei suoi aspetti tecnici altrimenti l’avvenuta rinuncia dell’affidamento da parte di Servitalia rischia di servire a mischiare le carte e ‘spazzare il pallone in rimessa laterale’. Perché gli accertamenti interni disposti dall’assessora Aprile potranno servire a chiarire alcuni aspetti legati al provvedimento ma il tema principale resta la liceità (o meno) di un affidamento a una cooperativa con quelle caratteristiche, a prescindere dalla presenza o meno di parentele scomode. Per comprendere i risvolti del caso può essere utile fare riferimento a un provvedimento della Corte di Cassazione di pochi mesi fa. Riguarda un dirigente del Comune di Avellino, indagato del reato di falso in atto pubblico per aver assegnato il service audio-luci e la security per gli eventi a un’impresa che si era affrettata ad attivare il relativo codice ateco solo pochi giorni prima. Ebbene, riformando la decisione del tribunale del riesame, la Corte di Cassazione (ri)afferma un principio fondamentale. Nel caso di un affidamento diretto, ai sensi dell’art. 50 del codice degli appalti, “anche laddove nella determina non si faccia espressamente menzione della motivazione della scelta e dell’avvenuta verifica dei requisiti, trattandosi di ‘indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione’, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza della relativa omessa menzione (non di rado scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica”.
IL CASO DI FOGGIA. Proviamo a tradurre: un funzionario che fa un affidamento diretto articolo 50 deve verificare preliminarmente che le imprese che sceglie abbiano già esperienze nel campo. Nel caso non dovesse farlo, pur se nella determina (qualche volta volutamente) non riporta le motivazioni della scelta, è accusabile di falso in atto pubblico. Nel caso di Foggia spetterà alla magistratura eventualmente verificare profili penali, con il particolare che rispetto al caso di Avellino Servitalia non ha attivato il codice Ateco neanche qualche giorno prima dell'affidamento. Una cosa resta acclarata: il controllo dei requisiti di legge va effettuato prima e non assolutamente a posteriori come si è voluto far credere successivamente alla pubblicazione dell'articolo di Foggia Città Aperta. Nel caso di Foggia, va ribadito, Servitalia non ha esperienza in alcun settore economico. "Tra le attività previste nell’oggetto sociale - prova a difendersi la cooperativa nella nota con la quale ha annunciato di rinunciare all'incarico - sono ricomprese quelle oggetto della richiesta di fornitura da parte del Comune di Foggia". Il legale dell'impresa probabilmente prova a far rientrare tra le attività affini quella di manutenzione parchi urbani. Ma oggetto dell'affidamento non è un servizio. È la fornitura (produzione o commercio) di arredo urbano. E allora precisiamo la domanda: è presente questa attività nell'oggetto sociale di Servitalia?.
I RISVOLTI POLITICI. La circostanza che tra i soci e componenti del consiglio di amministrazione figuri la sorella gemella dell'assessora Lucia Aprile aggiunge alla vicenda risvolti politici. Elettori, cittadini, consiglieri e rappresentanti di partito potranno fare le valutazioni che vorranno. Gli aspetti tecnici oggettivi tuttavia restano immutati e, oltre che avviare indagini interne scrupolose per appurare eventuali responsabiltà, da parte degli organi politici sarebbe cosa buona e giusta fornire indirizzi precisi alla tecnostruttura per evitare in futuro casi simili.
LE VERIFICHE ANTIMAFIA. Resta da chiarire la questione della verifica antimafia. Per la cooperativa Servitalia la richiesta antimafia è stata effettuata il 27 marzo scorso, tre mesi prima dell’affidamento. L'autodifesa degli uffici è che la stessa è stata inviata in occasione dell'iscrizione alla piattaforma Traspare. Ebbene, apprendiamo che negli uffici del Comune di Foggia è tuttora in essere una prassi (come correttamente la definisce il legale difensore di Servitalia che evidentemente, conoscendo la materia, ne avverte la criticità) avviata con una comunicazione del settembre 2021 dai commissari ed evidentemente possibile solo in un periodo straordinario vissuto dal Comune di Foggia come il commissariamento per mafia. Diversamente da quanto prevede la legge, insomma, al Comune di Foggia si continua ad applicare una sorta di ‘white list preventiva’, peraltro estesa a tutti i settori economici laddove le norme la reputano possibile solo per alcuni settori sensibili alle infiltrazioni mafiose. È di tutta evidenza che questa prassi non corrisponde esattamente al manuale della buona amministrazione e deriva, da quel che si è potuto comprendere, da una errata interpretazione dell'articolo 100 del codice antimafia più volte citato a sproposito.
L’ARTICOLO 100. Sulla carta la prassi di richiedere certificazione antimafia a tutti i fornitori che si iscrivono all’albo potrebbe sembrare un esercizio rigoroso della legalità e invece rappresenta un inefficace metodo che serve solo a intasare la banca dati nazionale antimafia della prefettura (qualcuno avverta il prefetto). L'articolo 100, infatti, precisa che, nei cinque anni successivi al commissariamento il Comune è obbligato a effettuare la verifica antimafia "precedentemente alla stipulazione, all'approvazione o all'autorizzazione di qualsiasi contratto". È nel momento in cui un'impresa si aggiudica un appalto che va fatta la richiesta antimafia. Farlo al momento dell'iscrizione in albo fornitori è quanto meno superfluo. Avviene così? Ne prendiamo atto. Di certo una richiesta effettuata mesi prima di un'aggiudicazione non può avere alcuna valenza ai fini della contrattualizzazione. Tra l’iscrizione all’albo fornitori e l’affidamento di un appalto possono passare giorni, mesi. In quel lasso di tempo l'impresa può modificare soci, amministratori, ecc. Come si fa a dare validità a una richiesta antimafia tanto retrodatata? L'unica informativa antimafia che conserva validità per dodici mesi è quella legata all'iscrizione in white list che, come detto, riguarda particolari settori e prevede una particolare procedura e indagini particolareggiate della prefettura. Se non altro, magari se si ha voglia di affrontarlo, il caso potrà servire a correggere almeno tale prassi, citando il legale difensore di Servitalia.
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