“Sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire”. Dalle parole del presidente della Puglia, Michele Emiliano, in merito al fondo regionale stanziato di recente per gli operatori dello spettacolo (
LEGGI), viene fuori una riflessione: se sono tempi duri per gli artisti, ancora più duri sono per chi vive della e con la loro arte. È il caso di Nino Antonacci del Moody Jazz Cafè, storico punto di riferimento in Capitanata per gli amanti della musica dal vivo. In questa intervista (
foto di Francesco Truono, ndr), l’organizzatore di eventi fa il punto della situazione alla luce del difficile momento storico vissuto dal comparto spettacoli, parlando di realtà locale e nazionale, di fondi, offerta e radicamento culturale, adrenalina e… Rolling Stones.
Nella catastrofica classifica dei più penalizzati dal Covid, agli artisti è andata molto male. Per chi vive di eventi forse è anche più dura, è così? Non amo lamentarmi ma è così. Le misure di ristoro oltre a essere insufficienti, per coloro che sono riusciti a ottenerle, sono anche di difficile accessibilità. Ci sono, inoltre, categorie e aspetti che non stati affatto considerati e questo ha evidenziato maggiormente i cronici vuoti normativi della legislazione dello spettacolo.
Cos’è che si può fare, nel settore, e ancora non è stato fatto o proposto?
Proprio alla luce di ciò che ho detto prima credo che questo momento di chiusura rappresenti davvero l’occasione per scrivere una normativa strutturale sullo spettacolo. Ci sono due proposte di legge molto corpose che sono state presentate e a cui, in parte, abbiamo collaborato come Italia Jazz Club, che è l’associazione di cui faccio parte e che rientra nella Federazione “Il Jazz Italiano”.
Abbiamo, intanto, ottenuto per il FUS 2021 (Fondo Unico per lo Spettacolo) di prossima pubblicazione, alcuni importanti risultati. Per la prima volta dalla sua istituzione il “jazz” e i “club” hanno trovato spazio in un fondo a quasi esclusivo appannaggio delle fondazioni lirico-sinfoniche. Ritengo inoltre che si debba semplificare, dal punto di vista burocratico, l’organizzazione degli spettacoli medio-piccoli ed eliminare o ridurre alcuni balzelli ormai inaccettabili.
Come si tiene viva l’attenzione sul Moody e su un lavoro che, di fatto, vive di visibilità e di contatto diretto con la gente?Penso che l’onnipresenza si trasformi prima o poi in indifferenza. Siamo ormai pesci in un enorme branco di pesci, intrappolati nella “rete”, puoi esserci o non esserci più, non se ne accorge nessuno. Non amo la visibilità fine a se stessa, mi piacciono i contenuti. Se non ho niente da dire resto in silenzio. Il “marketing” inteso come promozione del proprio prodotto mi piace quando è autentico, sincero, onesto, sia nei rapporti reali che virtuali.
In fin dei conti la musica ci insegna che le pause sono importanti quanto le note, altrimenti sarebbe solo fastidioso rumore di sottofondo.
Quanto manca la musica dal vivo?Mi manca tanto ciò che riesce a creare, l’incontro. È quello a cui siamo tenuti a rinunciare pur essendo l’essere umano un animale che non può prescindere dagli altri per stare bene.
La musica in genere, quella dal vivo in particolare, resterà sempre uno dei mezzi più sani e meravigliosi per unire corpi, anime e cuori. L’adrenalina di organizzare o partecipare a un concerto, con tutto quello che comporta, è linfa vitale per me.
Ho comunque deciso di approfittare di questa chiusura per studiare in maniera più approfondita vari aspetti del mio lavoro e cercare di arrivare più preparato e stimolato al nuovo inizio; dopotutto l’attesa e la preparazione per la partenza è parte integrante del viaggio.
Per una realtà come Foggia, questo stop culturale quanto può essere dannoso?Lo è esclusivamente per gli operatori del settore e per i pochi fruitori.
Il resto della città resta indifferente. Ma almeno è più coerente di quanto siano coloro che si lamentano della chiusura dei teatri o luoghi di spettacolo pur non frequentandone nessuno. Foggia ha comunque problemi ben più gravi ed endemici da affrontare, non soffre di assenza di cultura (intesa come arte e spettacolo) ma di radicamento (a volte anche inconsapevole) di una certa “cultura” che ben conosciamo.
Quale concerto, tra quelli che hai organizzato, è quello che ricordi più spesso in questi ultimi tempi così difficili?Penso spesso a quello di Diane Schuur, che rimane uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Un sogno confuso con la realtà. Ma anche a quello di Paul Warren, la cui energia infuocò quella fredda notte d’inverno di 10 anni fa.
Come e da dove si ripartirà?Si naviga a vista, per cui qualsiasi previsione resta solo un’ipotesi.
Giocando d’azzardo con il futuro potrei puntare su una limitata riapertura verso aprile-maggio, almeno fino a settembre, con le stesse disposizioni dell’estate scorsa. Si ripartirà più meno da dove ci siamo lasciati, forse con un maggiore senso del sospetto, ma ci sarà voglia di incontrarsi e la musica dal vivo può rappresentare un ottimo “strumento di armonia”.
Avendo possibilità illimitate, quale sarebbe il primo concerto post-pandemia?Se non ponessi limiti alle mie possibilità e capacità, senza ombra di dubbio sceglierei i Rolling Stones. Ma da sveglio seguirei le indicazioni di una frase che scrissi sulla scenografia del Moody anni fa: “Svegliarsi con il sole del Soul, vivere con l’energia del rock, fare l’amore a tempo di un lento blues e passare la notte sotto le calde coperte del jazz”. I primi quattro vorrei che fossero così.